L’imprenditoria straniera del rione, tra stretti rapporti comunitari e istituti di credito ad hoc
(Numero 4 – Bimestre nov-dic 2015 – Pagina 4)
Quando si parla di Esquilino, in particolare di Piazza Vittorio, il primo pensiero è spesso rivolto all’alta concentrazione di immigrati, che non ha eguali in nessun altro rione della Capitale.
Basti pensare che in soli 10 anni (dal 2003 al 2012) la popolazione straniera qui residente è raddoppiata, passando dai 22.706 del 2003 ai 45.380 del 2012, stando all’Annuario statistico del Comune di Roma del 2013. Le principali etnie risultano essere quella cinese e quella bengalese, entrambe radicatesi oramai da tempo e così forti al loro interno da permettere loro di aprire numerose attività commerciali. Ma andiamo con ordine.
Quando tutto ha avuto inizio. L’insediamento degli immigrati non è un fenomeno recente, ha avuto i suoi inizi a partire dagli anni ’70 con una presenza solo di passaggio, favorita dalla vicinanza con la stazione Termini e dalle numerose strutture di accoglienza presenti. Una delle primissime offerte lavorative per i nuovi arrivati era quella di essere assunti come “scaricatori” per il mercato della piazza. Col passare del tempo si è arrivati però ad una graduale sostituzione non concorrenziale degli italiani (proprietari dei banchi), che per loro scelta hanno preferito lasciare l’attività agli ultimi arrivati. La necessità e la volontà di lavorare erano tali al punto che essi hanno ben accettato la sfida che si erano lanciati, quella cioè dell’auto-imprenditorialità.
La comunità cinese… Essa è stata in qualche modo anche agevolata dalla legislazione italiana. Bisogna tornare infatti indietro fino al 1987, quando è stata promulgata la legge 109, un accordo bilaterale tra il governo italiano e quello cinese in cui si promuovevano investimenti imprenditoriali tra le parti. Gli asiatici sono molto attivi in diversi settori di mercato sempre nuovi: stanno pian piano uscendo dalle loro attività tradizionali, ristorazione e vestiario, e si stanno cimentando con altri tipologie, da sempre gestite da italiani, come agenzie immobiliari, enoteche, bar, parrucchieri , gioiellerie.
…e quella bengalese. Anche la sua storia si attesta intorno alla metà degli anni ’80 e soprattutto in seguito, nel 1990, anno dei mondiali di calcio, occasione ghiottissima per poter entrare in punta di piedi nel nostro Paese e poi rimanerci. All’inizio i bengalesi erano soliti concentrarsi attorno alla stazione e solo in un secondo momento si attestano nell’ex pastificio Pantanella a Porta Maggiore. Col passare del tempo hanno preso sempre più fiducia in se stessi e si sono concentrati su due principali forme di commercio: quella della vendita su strada (le famose bancarelle) e quella delle frutterie, un pretesto a volte per nascondere rivendite non autorizzate di alcolici da una certa ora in poi, con un servizio offerto 24 ore su24, 7 giorni su 7.
Una domanda spontanea. Come fanno le due comunità ad ottenere finanziamenti per aprire così tanti negozi in zona? La risposta è semplice. Per quanto riguarda gli originari di Pechino e dintorni vi sono le cosidette “guanxi”, ossia le relazioni che intercorrono tra l’ultimo arrivato e i gruppi già insediati in zona (amici, parenti, conoscenti). Questi rapporti portano a dei prestiti personalizzati e ad una situazione di onorabilità del debito così forte che il mancato rispetto porterebbe alla totale esclusione dalla comunità, con il venir meno della protezione e dei servizi offerti. I bengalesi agiscono in maniera abbastanza simile. Se un membro vuole aprire un esercizio commerciale chiede aiuto primariamente ai propri connazionali, e in seguito, nel caso in cui questo non sia sufficiente, si rivolge direttamente agli istituti di credito. Tra quelli presenti nel rione ne esistono due nati ad hoc per gli immigrati: ‘Extrabanca’, nella zona sotto i portici che fa angolo con via Machiavelli, e ‘Agenziatu Unicredit’, da poco trasferitasi da piazza Vittorio a via Merulana.
L’esempio dell’Esquilino fa vedere quanto in realtà l’immigrato non sia affatto un soggetto passivo, ma al contrario riesca a reinventarsi imprenditore e ad avere come dipendenti gli stessi italiani.
Francesco Di Nicola