Il coordinatore della scuola di italiano della “Casa dei Diritti Sociali” racconta la sua esperienza a contatto con i migranti
(Numero 6 – Bimestre mar-apr 2016 – Pagina 6)
Quali sono i principali Paesi di provenienza dei migranti che frequentano i corsi della “Casa dei diritti sociali”?
Tutte le associazioni che offrono servizi ai migranti come la nostra, si caratterizzano per la frequenza di stranieri provenienti dallo stesso Paese perché le persone, con il passaparola, vanno dove sono maggiormente presenti i loro connazionali e quindi le diverse comunità alimentano se stesse. Così, mentre a Roma c’è una prevalenza di rumeni e polacchi, ai nostri corsi i migranti arrivano soprattutto dall’Africa subsahariana (Mali, Gambia, Senegal), dove c’è un basso livello di scolarizzazione. Arrivano anche eritrei ed afghani e nell’ultimo anno si sono contate ben 85 nazionalità. Anni fa i gruppi più numerosi venivano dall’Asia ed avevano un alto grado di istruzione (18% laureati, anche con specializzazioni avanzate, e 40% diplomati). Ultimamente i cinesi, che hanno sempre rappresentato nel nostro rione, insieme ai bengalesi, una presenza massiccia, sono invece in calo perché preferiscono altre mete, come l’Africa dove le imprese cinesi, private e di Stato, investono molto.
Per quali motivi lasciano i loro paesi e attraverso quali rotte arrivano in Italia?
Vengono spesso da paesi in guerra o con conflitti interni. Fuggono dalla guerra e dalla fame. Ma anche da dove vige la dittatura o non sono rispettati i minimi diritti civili. Arrivano soprattutto dalla Libia dove si imbarcano per venire in Italia: sono richiedenti asilo e possono ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria internazionale o l’accoglienza per motivi umanitari. Chi non ha queste caratteristiche in teoria viene espulso.
Quando arrivano in Italia, vogliono rimanere qui o andare in Nord Europa? Qualcuno intende tornare al proprio Paese?
Di solito la maggior parte vuole chiudere con l’esperienza passata di forte sofferenza e non vuole tornare nel proprio Paese. Per lo più vogliono andare in Germania o in Inghilterra perché ritengono di avere maggiori opportunità di lavoro. Infatti arrivano informati sulle situazioni dei diversi paesi attraverso Internet e i media locali. Poiché il trattato di Dublino impone di restare nel paese che li identifica, spesso preferiscono non essere identificati e provare a raggiungere il Nord Europa; anche se adesso con la chiusura delle frontiere, raggiungere la meta desiderata diventa molto difficile.
Nel periodo di permanenza in Italia, dove vivono?
A seconda dello status che viene loro riconosciuto, vanno nei diversi centri: i C.A.R.A. (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) per chi ha chiesto lo status di rifugiato (Castelnuovo di Porto è quello più vicino a Roma), i C.d.A. (Centri di Accoglienza) per coloro il cui status giuridico è ancora da definire, e i C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione) per chi non ha diritto a rimanere e deve venire espulso. Spesso però non c’è una distinzione netta perché dipende dai posti disponibili. La vita nei centri non è delle più confortevoli, soprattutto per il gran numero di persone che vi sono ospitate. I residenti devono sottostare ad alcune regole come per esempio rientrare ad un determinato orario.
Hai un’idea di quello che i migranti di religione musulmana pensano dell’ISIS e dei terroristi in genere?
Loro non si identificano minimamente con i terroristi. Tuttavia soffrono molto per la diffidenza che si crea nei loro confronti. Anche nei più elementari comportamenti quotidiani, avvertono una forma di sospetto da parte degli italiani verso di loro. Di integralisti islamici non ne abbiamo mai avuto nessuno.
Molti migranti arrivano anche con il visto turistico?
Sì, in realtà il grosso non arriva dal mare, ma con i treni, gli aerei e con il visto turistico. Poi dopo tre mesi, quando scade il visto, restano qua e cercano di trovare il lavoro o di andare in altrove.
In generale, cosa ne pensi della politica di accoglienza dell’Italia?
Il problema è che in Italia si è operato sempre con provvedimenti di emergenza e mai con un sistema strutturato ed organizzato. Basti pensare che la prima risposta di sistema per l’insegnamento dell’italiano arriva solo nel 1997. Il volontariato entra in scena già dal 1985. Adesso a Roma su 20mila corsi di lingua italiana per stranieri, solo 8mila sono organizzati da scuole pubbliche, mentre gli altri 12mila sono tenuti dal volontariato (60% dell’offerta formativa). Il volontariato, oltre all’insegnamento dell’italiano, cerca anche di trasmettere valori etici e culturali, creando elementi di scambio tra le diverse culture. Oggi, con un flusso migratorio in continua ascesa, ci troviamo in una situazione difficile da gestire sia dal punto di vista logistico che culturale, essendo in ritardo nella costruzione di strutture e nell’organizzazione di servizi (insegnamento lingua italiana, formazione professionale, laboratori culturali). Eppure è una situazione che potrebbe essere risolta con un po’ di volontà, attenzione ed innovazione da parte delle istituzioni nazionali e locali, evitando sentimenti di diffidenza e paura da parte degli italiani e dei residenti del rione.
Maria Grazia Sentinelli, Paola Romagna