Un secolo di storia attraverso i ricordi di un testimone d’eccezione, abitante del rione Esquilino
(Numero 7 – Bimestre mag-giu 2016 – Pagina 8)
Andrea Pirandello, giovanissimo hai deciso di prendere parte attiva alla Liberazione del nostro Paese. Come sei arrivato a questa scelta?
Durante la guerra io e mio fratello Giorgio prendemmo contatti per aderire al partito comunista. Per qualche tempo, prima della liberazione di Roma dai nazifascisti, fui costretto a nascondermi nel Seminario Francese, dietro al Pantheon. Lì con me c’erano alcuni ebrei, fortunatamente scampati al rastrellamento del ghetto nell’ottobre del ’43. C’erano anche ufficiali dell’esercito italiano, rifugiatisi lì dopo l’armistizio. Dopo l’irruzione nel Seminario Lombardo (il 21 dicembre 1943 da parte della banda Koch, n.d.r.) capimmo che nemmeno i seminari erano luoghi sicuri, quindi tornai a casa, dove però fingevo di non esistere: anche lì dovevo stare nascosto. Dopo la liberazione di Roma gli alleati acconsentirono che gli italiani facessero parte dei reparti combattenti. Dal momento che eravamo comunisti e antifascisti, seppur giovanissimi – io avevo 19 anni e lui 18 – Giorgio ed io decidemmo di arruolarci ed entrammo a far parte del gruppo di combattimento Cremona, che affiancava l’VIII Armata britannica. Risalimmo la penisola lungo il litorale adriatico fino a Ravenna e alle paludi di Comacchio. Lì combattemmo varie battaglie liberando paesi e città.
Dopo la guerra hai lavorato come redattore politico per L’Unità. Come sei entrato nel giornale?
Nei primi giorni del ’46 Luca Trevisani, che avevo conosciuto durante il periodo della clandestinità, mi chiamò assieme ad altri giovani del partito per collaborare con L’Unità. Eravamo in prova, ed io mi occupavo degli Interni. A quei tempi L’Unità consisteva di un solo foglio, stampato su entrambi i lati. Le notizie quindi dovevano essere molto concise, di poche righe: ricordo che la prima volta che scrissi una notizia un po’ più lunga mi sembrò una cosa straordinaria. Nel maggio dello stesso anno il capo redattore mi comunicò che ero stato assunto. In quegli anni ho lavorato con Alfredo Reichlin, che era capo servizio degli Interni, Luigi Pintor, Francesco Colonna, Ennio Polito.
Hai lavorato anche a contatto di importanti figure politiche come Togliatti.
Fui resocontista di Togliatti dal 1956 al 1964, anno della sua morte. Lo conobbi proprio nel periodo dei fatti di Ungheria dell’autunno del ’56, quando fui mandato a seguirlo. A Togliatti piacque il mio lavoro e da allora i resoconti dei suoi discorsi divennero una parte della mia attività di redattore politico e di notista. Ricordo quando parlò a Perugia nel ’56. Il clima era molto teso, in città e nel Paese. Ma Togliatti tenne il suo discorso senza incidenti.
Hai conosciuto anche Berlinguer?
Anche per lui facevo i resoconti. All’inizio degli anni ’70 fui anche suo segretario per un breve periodo, ma presto tornai a L’Unità. Nel ’78 lasciai il giornale, nel frattempo era morto mio padre e mi sentivo gravato di tutta la “situazione Pirandello”. In realtà c’era già un avvocato che curava tutte le cose di Luigi Pirandello. Ci consultavamo per prendere decisioni, come scegliere la compagnia a cui fare interpretare una determinata commedia.
Di recente hai riordinato e pubblicato il carteggio tra tuo padre Stefano e tuo nonno Luigi. Che rapporto c’era tra i due?
È proprio negli anni della prima guerra mondiale che mio nonno Luigi compie una vera e propria rivoluzione nel teatro. Mio padre, essendo prigioniero di guerra, non assisterà in prima persona a questo successo. Si era arruolato giovanissimo nell’esercito e, qualche mese dopo l’entrata dell’Italia nel conflitto, catturato dagli austriaci e imprigionato a Mauthausen. Sarà liberato tre anni dopo. Tra mio padre e mio nonno c’era un rapporto molto stretto, che continuerà e si salderà proprio grazie alle lettere che i due si scrivono durante quegli anni.
Che ricordo hai di tuo nonno?
Noi vivevamo insieme. Lui stava nell’appartamento sopra il nostro, in via Antonio Bosio, dove tutt’ora è possibile vedere la sua piccola stanza ed il suo immenso studio. Il rapporto con noi nipoti era molto affettuoso. La sua nipote preferita era mia sorella Ninnì (Maria Antonietta), era la più grande e con lei poteva fare dei discorsi più da adulti. Uscivano spesso insieme, andavano a cinema o a teatro, dove lei assisteva alle prove delle sue opere. Ricordo che nel ’34 ci fu un Convegno Internazionale sul Teatro, qui a Roma. Mio nonno doveva mettere in scena La Figlia di Iorio, di D’Annunzio, e portava mia sorella ad assistere alle prove. Lei ne rimase talmente affascinata che a casa ne recitava intere parti, scatenando le gelosie e le invidie mie e di Giorgio. Ninnì e il nonno facevano anche delle simpatiche scenette a ora di pranzo: lei andava al piano di sopra a dirgli che il pranzo era pronto e insieme scendevano le scale canticchiando. Continuavano a cantare anche a tavola e io e mio fratello facevamo la parte del pubblico entusiasta. Uno dei ricordi legati al nonno è il giorno della sua morte: nel dicembre del ’36 si ammalò, ci ammalammo anche io e Giorgio. Ma ricordo chiaramente l’urlo che giunse dal piano di sopra e lo scalpiccio lungo le scale di casa: Luigi Pirandello era spirato.
Attualmente a cosa stai lavorando?
Da una vita, ormai, sto scrivendo delle vicende della mia famiglia. Credo che continuerò a scrivere finché vivrò, benché abbia già scritto tanto. Mi sembra di lavorare a un libro infinito.
Antonia Niro