L’artista ecuadoregna Rosa Jijon ci parla della sua esperienza di promozione nel rione
(Numero 8 – Bimestre lug-ago 2016 – Pagina 6)
Qual è stato il tuo percorso professionale e culturale?
Mi sono laureata in arti visive in Ecuador e ho lavorato anche a Cuba e in Svezia, sono venuta in Italia per motivi personali nel 2000 e ho cominciato a modificare il mio lavoro perché mi sono accorta di essere “una migrante”. Per cui nel mio lavoro ho iniziato ad introdurre problematiche dell’immigrazione. Ho conseguito un master all’università di RomaTre in mediazione culturale e ho cominciato a lavorare con un’associazione della Casa Internazionale delle donne; da quel momento la mia attività di artista, i nuovi studi e la realtà dell’immigrazione si sono fuse e mi hanno permesso di sviluppare un nuovo metodo: lavorare con lentezza, ascoltando con attenzione senza dare un’interpretazione dall’esterno di quello che l’altro è o vuole, ho avviato un processo di fotografia partecipata. Un luogo comune dice “queste persone non hanno la voce, diamo loro una voce”. Per me è falso: tutti hanno già una voce, sanno cosa vogliono. Ciò che possiamo fare è alzare il volume e ascoltare il racconto delle loro vite.
Quali progetti hai sviluppato nel rione?
Ho lavorato con la rete G2 (migranti di seconda generazione). Abbiamo incontrato a Termini i ragazzi che, raggiunti i 18 anni, si trovano senza permesso di soggiorno e devono tornare nei loro paesi di origine, ma sono nati in Italia e si sentono italiani. Insieme abbiamo realizzato diversi prodotti culturali: un video, un fotoromanzo un documentario, uno spot. Abbiamo portato avanti anche un lavoro politico preparando una legge sulla cittadinanza che è in discussione al Senato. Dopo qualche tempo ho sentito parlare di alcune donne latinoamericane che giocavano a calcio a Colle Oppio. Ci sono andata, ho sentito odore di casa: sono tornata lì con tre registi. Abbiamo lavorato con “lentezza” per cinque mesi, ascoltando, costruendo relazioni senza usare né macchine fotografiche, né fotocamere. Solo dopo, abbiamo realizzato un documentario, “La Polverera”: leggero, divertente, ma che parlava di cose toste. È stato un successone, grazie anche ai media del calcio che hanno contribuito alla sua diffusione. Ho scoperto inoltre, l’importanza della voce. Insieme ad un’associazione di via Bixio abbiamo fatto con i ragazzi e ragazze migranti una lettura a più voci della legge Bossi-Fini: abbiamo fatto conoscere agli altri un testo che determinava la loro vita.
Cosa servirebbe per favorire la multiculturalità nel rione?
All’Esquilino ti senti in Europa perché hai una sensazione di meltingpot. La mattina vedi l’imam o il copto che si recano nei loro luoghi di culto, scopri suoni, odori e voci molteplici ma in questa mescolanza di etnie non si avvertono grandi tensioni. Certo si potrebbe fare di più per favorire la multiculturalità. Per esempio creare luoghi d’incontro. Non solo il cinema all’aperto a piazza Vittorio. La cultura infatti, non è solo spettacolo, ma lavoro capillare, fatto con lentezza nei diversi ambienti dove i cittadini vivono, capace di descrivere le loro problematiche, permettere loro di riappropriarsi del territorio e acquisire la consapevolezza del bene comune: si potrebbe fare tutti insieme un orto urbano o pulire il parco,rendere bello il rione perché appartiene a tutti. Ho lavorato a Tor Sapienza, dove c’era di tutto: giovani, anziani, rom, ragazzini che odiavano gli extracomunitari, però tutti avevano la stessa esigenza: avere un luogo comune. Stimolati dal nostro progetto, per far avverare questo desiderio si sono uniti e hanno realizzato il parco che ora è un luogo d’incontro per tutti. Perché non aprire un grande centro culturale, di produzione educativa che favorisca il dialogo interculturale con spazi gratuiti e aperti a tutti anche all’Esquilino? A Madrid c’è la tabacalera, uno spazio occupato che poi è stato riconosciuto dal comune e che ora è un vivace centro gestito in collaborazione dai cittadini e le amministrazioni pubbliche. Qui invece si assiste ad una pesante chiusura degli spazi autogestiti!
Ma all’Esquilino attività culturali si fanno, soprattutto a cura di associazioni del rione e della scuola Di Donato. Forse non riescono ad investire l’intera zona e non creano cultura comune tra i suoi abitanti?
Secondo me va prima di tutto chiesto alle persone cosa vogliono, magari attraverso una consulta dei rappresentanti delle comunità straniere: questa è vera partecipazione. La consulta costituita ai tempi di Veltroni aveva cominciato a lavorare, ma il lavoro è andato perso. Un’altra cosa importante sarebbe dare la possibilità a tutti stranieri residenti in Italia di votare alle elezioni amministrative; in tal modo si sentirebbero più coinvolti nelle scelte della città e dei loro quartieri. Una buona idea sarebbe fare una mappatura del territorio per valorizzare i posti caratteristici del rione, quelli che vendono prodotti tipici e le botteghe storiche artigianali; realizzare una guida turistica dell’Esquilino, con cui favorire la responsabilità degli esercenti stranieri e farli sentirli parte del rione.
Maria Grazia Sentinelli, Paola Romagna