Lei di Trastevere, lui di Esquilino. Mi accolgono come un membro della famiglia
(Numero 12 – Bimestre mar-apr 2017 – Pagina 15)
“Mia figlia si è trasferita a Milano otto anni fa. Quando la vado a trovare ci porta con il marito e i suoceri a cena fuori, manca il calore dei pranzi fatti a casa”. Rosa, la mia nuova ospite, scuote la testa. E’ inconcepibile per lei l’assenza di convivialità casalinga.
“Quando scendono a Roma io cucino tutta la domenica mattina. Mangiare in famiglia vuol dire stare in famiglia. A casa”. Lei e suo marito Italo hanno quattro figli, tutti in giro per l’Italia. E la casa svuotata dalle loro partenze è piena di foto.
Consigli culinari e ricordi. “Che bello che sei venuto da noi”, sorride Italo. Mentre Rosa si affanna come se fosse domenica e avesse a cena tutta la famiglia.
Gnocchi fatti in casa e ragù di cinghiale. Da bere vino bianco. Rosa ha lavorato gli gnocchi poche ore prima. Al sale, che va aggiunto dopo aver cotto le patate per una mezz’oretta, ha aggiunto un paio di segreti. Non le chiedo di svelarmeli. Rosa preferisce parlare di quando, prima con la mamma poi da sola, scendeva a far la spesa al mercato di piazza Vittorio.
“La cucina romana – dice – va oltre lo sfornellare con sapienza. E’ accoglienza, sapore, sudore e ricerca”. Impiatta gli gnocchi mentre la stanza si riempie del loro profumo. “Mi sono sposata giovane. La mattina presto scendevo al mercato e cercavo le primizie. La frutta e le verdure migliori” Sorride fiera. “Sai cosa significa sfamare quattro figli e un marito? Tempo e amore”. Versa un cucchiaio di sugo con attenzione sul mio piatto. “La tavola e il mangiare quando ero giovane avevano tempi e valori diversi rispetto a oggi”, aggiunge.
E se i tempi del cibo oggi sono veloci più del dovuto, Rosa mi confessa di non essersi arresa.
Il ragù di cinghiale è cotto a fuoco lento per tre ore. Un soffritto di aglio intero con trito di sedano, cipolla e carota deve scoppiettare sulla grande padella. “Inoltre – dice Rosa guardandomi come se fossi un suo figlio – il macinato di cinghiale deve riposare il pomeriggio tra rosmarino e alloro in una pentola lustrata di olio. Come dico sempre io, deve riposare “All’ombra””, continua mentre prendo appunti.
Da Trastevere con… costolette di abbacchio. Due piatti possono bastare. Dopo il bis, Italo mi racconta di una vecchia pelletteria di via Conte Verde. Era una piccola bottega dove ha imparato a creare borse artigianali prima di incontrare Rosa.
“Oggi c’è un centro massaggi cinese”, dice. “Ci facevo le borse io lì quando ero un ragazzino. Poi me ne sono andato a lavorare in un bar a Trastevere e ho incontrato questo fiore”. Guarda Rosa. “Io sono di qui, dell’ Esquilino. Lei no, è trasteverina!”. Sono ancora innamorati. Eppure il grande tavolo fa apparire la coppia più sola di quanto non lo sia. Le sedie vuote ne sono testimoni.
Rosa porta il secondo. Costolette di abbacchio in quantità industriale. “Si scioglie in bocca, ve’?”. Il tono materno con cui mi parla Rosa mi fa sentire a casa.
La carne è stupenda. Morbida e saporita. “Sì!”, rispondo con la bocca unta e la costoletta ancora in mano. Spiega Rosa: “Il segreto è nella panatura. Deve essere saporita. E la carne deve essere di qualità, soda”. Io continuo a prendere appunti. Lei detta felice: “Dopo aver sbattuto l’uovo immergici un po’ di rosmarino, pochissimo sale e pepe. In un’altra ciotola rovescia del pan grattato e aggiungi cristalli di sale grosso. Inzuppa le costolette nell’uovo e massaggiale. Poi passale nel pan grattato. Infine in forno; ma passaci sopra un filo abbondante di olio non filtrato”.
I figli le mancano. Lo sento da come mi parla. Le manca la sensazione di pienezza che una famiglia sotto lo stesso tetto offre.
Puntarelle e allegria. Accompagna il secondo con delle puntarelle e salsa di alici segreta. Sento una punta di aceto e aglio, tanto aglio.Io amo le puntarelle. Se ne accorge: “Prendile tutte, sei giovane!
Italo meglio che sta leggero!”. Ridiamo tutti e tre. “Ma lo vedi che è bello mangiare insieme? Cene fuori, ristoranti, “Justine”. Ma che porcherie!”
“Justine?” Chiedo. “Justin, sì. Just in. Just it, come si chiama?!”, mi dice. Rido con Italo. Intendeva Just eat, l’azienda che consegna pasti a domicilio. “Imparagonabile!”, esclamo.
“Esatto. Neanche il nome mi rimane in mente”, dice Rosa scuotendo la testa. “Mica per la qualità! Però mancano l’amore con cui una madre cucina e l’attesa di ritrovare la famiglia attorno al tavolo. Sono questi gli ingredienti segreti!” Sorride ma un velo di nostalgia le cala sul volto.
E’ il suo pallino. E mentre esco li abbraccio. Prometto a entrambi che tornerò un giorno per un’allegra cena in famiglia.
Andrea Fassi