Spaghetti al pomodoro, bistecca e una tazzina di caffè. Le regole del viver semplice a tavola
(Numero 14 – Bimestre lug-ago 2017 – Pagina 15)
L’odore di pomodoro e cipollotto soffritto avvolge la tromba delle scale. Salgo i gradini a due a due per la fame. Respiro a pieni polmoni. E’ un odore che appartiene un po’ a tutti coloro i quali custodiscono ricordi vividi: il pranzo a casa dei nonni. L’unico, il pranzo per eccellenza. In un batter d’occhio sono davanti alla porta socchiusa. Nello stesso identico modo in cui ci stavo uno, cinque, dieci, quindici, venti anni fa.
Mi aspettano. Entro veloce e saluto. Mio nonno guarda il telegiornale e mi accoglie come sempre: “Tra poco arrivo, ti lascio qualche minuto con nonna”. “Magnanimo”, penso. Ho qualche minuto prima che l’argomento del gelato torni imperante nella mia vita. Corro in cucina. Quei pochi minuti in cui posso raccontare a mia nonna la vita che scorre non voglio perderli.
Parlare con lei significa misurarsi con le mie conquiste o i miei rallentamenti, tutto attraverso lo sguardo di chi di vita ne ha già vissuta tanta. Per lei invece ascoltarmi è meglio di qualsiasi libro, rivista o programma televisivo. I nipoti sono la sublimazione della genitorialità, penso. L’odore del sugo ha avvolto del tutto il mio naso. Mia nonna, che si è spostata all’Esquilino con mio nonno ormai tanti anni fa, mi propone di cambiare menù da prima che diventassi maggiorenne. Non le ho mai detto di sì. La semplicità della ricetta che ripete da quando sono piccolo è stata una delle granitiche certezze della mia vita.
La pasta al sugo di nonna. “Le conchiglie di grano duro raccolgono meglio il sugo”. Dice mia nonna. Il sugo è semplice: si pelano i pomodori e si passano, si insaporisce con del sale e del basilico lasciando riposare il tutto per qualche ora. Si aggiunge un pizzico di zucchero. Qualche minuto prima del mio arrivo, con un po’ di olio la nonna fa soffriggere della cipolla, quando sta per dorarsi aggiunge nel pentolino il sugo e lo cuoce a fuoco lento. Nonna si avvicina lentamente. Mi sorride. Quando la pasta è cotta la scola, la versa nella padella e la ripassa per impreziosirla: il capolavoro è pronto. Con un sorriso pacato mi chiede se voglio un piatto o se la mangio tutta. Sa già la risposta.
Le racconto la settimana. Il libro che sto scrivendo, la gelateria, Giorgia, il rione, che mi piace sempre di più. Al suono della parola Esquilino sbuca mio nonno come un falco. Il difensore del rione, che stuzzicai quando definii l’Esquilino “quartiere” rischiando di confermarmi pecora nera.
Si avvicina e mi dà un pizzico. “Buona la pasta eh? Ma non cambi mai menù?” Dice.
“No. Lo sai. Ho poche certezze e questa dopo Giorgia e la gelateria chiude il triangolo”.
“Esagerato! Piuttosto ho visto un bel po’ di movimento in gelateria, ricordati di far pulire il marciapiede”, dice.
“Si hai ragione”. Si parte. Ecco l’argomento del gelato!
La pasta è quasi finita.
“Mangia con calma, su”. Mi dice mio nonno.
Non ci casco. Ricordo cosa mi raccontava lui di nonno Nino (il mio bisnonno Giovanni): assumeva i ragazzi stagionali in funzione di come mangiavano e in quanto tempo. Mi piace immaginare che se mi vedesse mangiare, non esiterebbe ad assumermi.
Il fumo denso della piastra annebbia la stanza, il secondo sta per arrivare.
Bistecca ai ferri. Ferri roventi, bistecca sopra circa sei minuti per lato a fuoco allegro. Sale grosso e una spolverata di pepe. Appena cotta ci si passa un filo di olio crudo.
“Nonna mi ha spedito a comprarla appena l’hai avvisata. Io sull’attenti ho esaudito la richiesta. Com’è? E’ buona? No perché torno lì e gliene dico quattro altrimenti”. Sorride.
Addento la bistecca che è ottima. Mio nonno prende il sigaro con una mano facendolo scivolare tra le dita e mi chiede se ho due minuti per parlare con lui. Come sempre li ho, ma anche se non li avessi non avrei via di fuga. Perché quei due minuti sono importanti: la rassegna stampa sul gelato. Due minuti, il tempo necessario per sentire borbottare il caffè dalla Moka.
“Questo rione è vivo più di ogni altro”. Dice, sorprendendomi. Non si parli di gelato. “La chiave è far tornare l’Esquilino un punto di arrivo. Non può più essere un territorio di passaggio”.
Non si dà pace, penso. Tuttavia per chi ha vissuto qui più di quarant’anni non muta l’amore per il rione, la speranza che esso possa rinascere supera qualsiasi delusione.
“Si spendono tante parole. Ma se ti scordi di far pulire il marciapiede non lo farà nessuno per te. Tranne me. Non posso farlo sempre io, mica ho l’età tua. Però alcuni ragazzi cinesi che mi hanno visto hanno fatto altrettanto. E questo è niente. C’è un sacco di gente qui che fa. Quelli che parlano lasciali stare, stai con quelli che fanno”. Afferma il nonno.
Il caffè borbotta. Penso al tempo che scorre. Al cambiamento dell’Esquilino. E’ una grande Moka piena di persone che bollono per fare del rione un posto sicuro e pulito, ma il fuoco è lento e ci vorrà del tempo. L’aroma di caffè si sprigiona fino alle mie narici.
Il caffè perfetto con la Moka. Se si ama il caffè lo si deve fare con la Moka. Perdonatemi ma non è moda vintage, è religione. Una Moka da tre tazzine deve contenere circa 150 cl di acqua. Deve rimanere libera una piccola sacca di aria sotto l’imbuto in cui si mette il caffè macinato. Scegliete per la Moka una macinatura a grani un poco più grossi rispetto ai finissimi usati per l’espresso al bar. Non fate dunette quando mettete il caffè nel filtro e non pressatelo. Per quanto riguarda il coperchio io lo tengo chiuso. Mettete una fiamma bassa e non fate superare la temperatura d’ebollizione. La goduria della Moka è l’attesa e il profumo che si espande lento. Ne mando giù una tazzina senza zucchero. E’ caldo e scioglie il sapore del pranzo nella mia gola.
Mio nonno si alza e lava i piatti mentre mia nonna mi sorride. Le sorrido. Le do un bacio e le prometto che tornerò presto. Come sempre non so quando, ma so che lì il porto è sempre sicuro.
Andrea Fassi