Il nostro rione è costellato di testimonianze della Prima Guerra mondiale. Si tratta di un importante patrimonio che dobbiamo imparare a riconoscere e interpretare, per costruire una società migliore
(Numero 22 – Bimestre nov-dic 2018 – Pagina 5)
Il 4 novembre 1918, a seguito dell’armistizio di Villa Giusti che metteva fine alla battaglia di Vittorio Veneto, l’Italia usciva ufficialmente dal primo conflitto mondiale. In tre anni e mezzo, il nostro Paese venne devastato dalla morte di circa 650 mila militari, 590 mila civili, oltre che dalle mutilazioni e infermità che più di 500 mila persone trascinarono con sé per il resto della propria esistenza.
In quel conflitto, che da molti venne considerato come il battesimo di sangue dell’Italia (la spedizione dei Mille era partita solo cinquantacinque anni prima dello scoppio della grande guerra), seppur lontana dai campi di battaglia, Roma ebbe un ruolo importante come simbolo dell’unità del Paese. Fu alla Stazione Termini che il generale Diaz e Badoglio arrivarono per festeggiare la vittoria, lungo le strade della città.
Fu sempre a Termini che il 2 novembre 1921 giunse il feretro del Milite Ignoto, successivamente tumulato all’Altare della Patria. Alla fine della guerra, partì un’opera di monumentalizzazione della memoria dei caduti, molto spesso dipinta dalla propaganda dell’epoca con i colori dell’eroismo leggendario.
Testimonianze della guerra. L’Esquilino, uno dei cuori pulsanti della Capitale, non poteva essere da meno e ancora oggi i segni di quel periodo storico passano ogni giorno sotto i nostri occhi, distratti dalla routine quotidiana. Ne è un importante esempio il monumento ai caduti all’interno del parco di piazza Vittorio Emanuele II. Venne eretto in memoria delle centinaia di uomini caduti durante la Grande Guerra, originari della zona: una moltitudine che rende l’idea dei dolorosi strascichi emotivi e sociali che il conflitto lasciò alle sue spalle. Pietro Benzi scrisse un opuscolo dedicato all’inaugurazione del monumento (1925), “La lapide ai gloriosi caduti del Rione Esquilino-Macao-Viminale (1915-1918) e i Trofei di Caio Mario”, che ci permette di immergerci nell’atmosfera dell’epoca: “[…] qui la lapide è posta entro il recinto della più bella piazza moderna di Roma – la Vittorio Emanuele II – addossata ai ruderi grandiosi del Ninfeo di Severo Alessandro, in mezzo ai mirti, ai lauri, all’edera seguace, alle palme, contornata ai piedi da una graziosa aiuola e più in alto dalle rose aulenti, dai ciuffi di mimulustrigrinus e di calle etiopiche che si inquadrano nei bruni massi di tufo posti a decorare la fontana che fa da specchio a tutto l’insieme del rudero che costituiva il Ninfeo Alessandrino. Quadro delizioso e di incomparabile bellezza e che non si può ammirare e godere che a Roma eterna”. Una piazza, un luogo simbolo di una Roma luminosa e proiettata verso il futuro. Un architetto e uno scultore – Guido Caraffa ed Enrico Brai – che concepirono e realizzarono un’opera nel rispetto consapevole della bellezza del luogo e della cifra stilistica dell’architettura circostante: “In questa lapide, dedicata ai caduti dell’Esquilino, non vi è ricerca di preziosità, né sforzi per raggiungere effetti di grandiosità che male contrasterebbero con l’ambiente […]”. Certo, il monumento di piazza Vittorio non è l’unica testimonianza dei caduti esquilini durante il primo conflitto mondiale.
Non solo soldati. All’interno della vicina basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, sulla navata sinistra, è custodita infatti la lapide dei novantuno parrocchiani caduti durante il conflitto. Tra questi, rarissimo caso, è presente una donna: la volontaria della Croce Rossa Eugenia Guj, una delle moltissime donne che prestarono servizio aiutando e confortando i soldati al fronte. Spostandoci verso piazza dell’Esquilino, all’interno del liceo “Pilo Albertelli”, si trova una lapide commemorativa dei quarantuno ex studenti dell’allora Liceo Ginnasio “Umberto I”, che persero la vita durante la Grande Guerra.
Un ciclista particolare. Un altro luogo della memoria è l’attuale via Enrico Toti, a pochi passi da Porta Maggiore, dove egli stesso visse e in cui è posta una lapide a suo ricordo. Toti fu uno dei personaggi più iconici del suo tempo: dopo aver perso una gamba a causa di un incidente sul lavoro, trovò la forza di reagire ed aprì una piccola fabbrica di giocattoli. Diede spazio, inoltre, alla sua più grande passione: la bicicletta. Dopo aver completato un giro dell’Europa sulle due ruote nel 1911, divenne una vera e propria celebrità. Pur senza una gamba, riuscì a farsi arruolare come volontario tra i bersaglieri ciclisti e trovò la morte nel 1916, a trentaquattro anni. La lapide a Toti, e tutte le altre dedicate ai caduti della Grande Guerra, ci offrono la possibilità di rinnovare la memoria su uno degli eventi più traumatici del secolo scorso.
Un monito per il futuro. Tralasciando i toni talvolta trionfalistici utilizzati dalla propaganda, che sfruttò quel sacrificio di sangue nella costruzione del nuovo regime, oggi quei nomi ci ricordano gli effetti inevitabili di ogni guerra. Rieducarci a volgere gli occhi verso i segni della storia di cui le nostre strade sono ricche, riflettere sugli eventi del passato, spiegarli alle nuove generazioni, condividerli con chi viene da lontano, è uno dei modi migliori per costruire la base di una società consapevole del valore della pace.
Cesare Dornetti