Un’esperienza mistica nella Roastery Reserve di New York, il fidato barista Sergio e l’eterno ritorno
(Numero 25 – Bimestre mag-giu 2019 – Pagina 15)
Sono Papille, sono tornato, e ringrazio di nuovo Andrea Fassi per avermi lasciato con disponibilità e generosità questa pagina dove il mio stanco spirito può raccontarvi sfumature e glorie del cibo.
Di rientro dagli Stati Uniti per l’intervento alla lingua cui mi sono sottoposto, porto con me un’esperienza edificante. Il giorno precedente all’intervento, ho visitato la Starbuck’s Roastery Reserve a New York. Sapere che aprirà anche a Roma mi ha elettrizzato.
Da Seattle a Roma. Starbuck’s, quello che tutti conoscono, nasce da un’intuizione imprenditoriale di tre universitari negli anni ’70, figlia di una curiosità nata dallo studio dei bar italiani. Prese il nome da un personaggio del romanzo di Moby Dick e per questa ragione è già meritevole di successo, almeno questo passatemelo. Dopo l’apertura del primo negozio a Seattle, nel 1971, e la conquista di quasi tutto il globo nei decenni successivi, credo che le odierne aperture a Milano e Roma chiudano il cerchio. Come spesso capita in questi casi, la capitale è ancora indecisa se accogliere o disdegnare il colosso del caffè.
A Roma alloggio a pochi metri dalla stazione San Pietro, quindi passo spesso per Borgo Pio e per la zona limitrofa ai Musei Vaticani. Sembra sia lì che aprirà la prima Roastery Reserve romana, ed è lì che oggi il caffè è di media qualità se non bassa. L’obiettivo di Starbuck’s è, oggi come agli albori, offrire un’esperienza totale al cliente. Così è stato per me allo store di New York.
Ma andiamo con ordine.
L’estetica del caffè. La Roastery Reservedi New York, uguale concetto degli store di Seattle, Tokyo e ora Milano, aperto in collaborazione con Princi – marchio italiano dei prodotti da forno – è un’esperienza mistica. L’enorme entrata in rame è il varco per la galassia del caffè. L’aroma del chicco più consumato al mondo mi accoglie appena tostato solleticandomi le narici. Inspiro a pieni polmoni e procedo nell’enorme locale dai colori ramati. Il vibrare di una grande tostatrice che intravedo in lontananza si ripete incessante; mi ricorda quando, una sessantina d’anni fa, in campagna dai miei nonni, sentivo il rumore delle pale del mulino girare lente.
Una ragazza scivola via da un tavolo su cui ampolle e alambicchi sono adagiati con sapienza, mi chiede sorridendo cosa ne penso del nuovo negozio, mentre mi offre un assaggio di uno specialty coffee. Per chi non lo sapesse, lo specialty coffee è un’alternativa al caffè classico, in parole povere è un diverso metodo di estrazione e tostatura di un caffè mono origine.
La bocca si scalda, l’aroma del caffè mi ricorda bacche di vaniglia e cioccolato. La decisione della bevanda mi permette di dimenticare che, da quando ustionai la lingua, parte del gusto non riesco più a percepirlo. Per fortuna il resto del sapore sopravvive denso nel retro del mio palato, sprigionando potente il suo aroma. Chiudo gli occhi: la prima immagine è una distesa di caffè in sud America, subito però l’immagine è rettificata dal pensiero del gioviale barista Sergio, proprietario del bar sotto casa mia a Roma. La mia mente lo dipinge scocciato, perché spesso non ho monete ma solo banconote da venti euro. Riapro gli occhi, sono ancora qui in paradiso, la ragazza mi sorride.
Il caffè è ottimo, procedo e un ragazzo mi ferma. Cortese mi chiede se fossi interessato a conoscere le fasi della tostatura del caffè e le miscele presenti in negozio.Sebbene le conosca già tutte e non abbia molto tempo, dopo pochi minuti mi trovo a tastare chicchi abbrustoliti, odorandoli come un segugio. Il rame intorno a me brilla, il caffè profuma e il locale è pieno. È un bar americano nato da una sfumatura italiana. È l’idea del bar secondo il fondatore Howard Schultz. Un’esperienza persino per un ex critico gastronomico come me.
Di nuovo Sergio si affaccia nei miei pensieri. Lo immagino nervoso che mi chiede informazioni sulle mie necessità,”Ce voi n’goccio de latte?”, mentre con un panno annerito spolvera l’unto bancone rovesciandomi delle briciole sui pantaloni. Da Sergio il caffè cambia ogni giorno, pur rimanendo nei canoni dell’accettabile. È il più buono della zona San Pietro, e anche da lui, come in tutti i bar limitrofi, non è permesso conoscere la miscela o la tostatura del prodotto. Forse sono io a essere pretenzioso, ma ho la sensazione che da Sergio qualcosa non funzioni e che ormai siamo tutti così abituati da non cogliere il problema.
Nostalgia canaglia. Procedo verso la pasticceria firmata Princi, mi limito a un Muffin forse un po’ troppo saporito e sorseggio un cappuccino, molto buono. Una ragazza mi consegna un foglio su cui leggo le provenienze dei caffè con cui preparano gli espressi, la tostatrice prosegue il suo lento lavoro, diversi cappuccini sono decorati da due ragazzi esperti in latte art. Può un prodotto avere tutte le sue più belle sfumature espresse in un locale? Sì, può.
Mi alzo, una ragazza mi saluta con un sorriso ringraziandomi. Sto diventando vecchio, per un istante questa perfezione che ha nutrito la mia ricerca per il bello e il professionale si diluisce nel pensiero di Sergio, che ora mi manca. Sergio mi sorride senza che me lo aspetto, mi racconta della moglie che non sta bene e di quanto sia stanco.
Non dobbiamo temere Starbuck’s.Starbuck’s deve insegnarci molto, ma non potrà mai insegnare la profondità di un caffè espresso al bar sotto casa.
Andrea Fassi