Una dura realtà del rione in un racconto di fantasia, ma non troppo
(Numero 35 – Bimestre mar-apr 2021 – Pagina 14)
Su, alla salita del ballatoio, faccio la mia innaffiata quotidiana. Mi sono sparato un tè matcha al baretto davanti alla stazione Termini, quello dove con gli altri prendiamo ordini dall’italiano.
Arrivo da giù io, da lontano, dodici ore di viaggio gonfio come un pallone. Mica come questo qui con la panza che se ne sta qua a dirci quando dobbiamo farla e dove farla, e il lassativo da prendere e il conteggio da fare e ad alcuni addirittura il video mentre esce. Che lui sa vedere le magagne. Dice. A me no, di me si fida ormai. C’ho la pancia che mi scoppia. Intanto innaffio per ben tre minuti buoni con tutti i liquidi che mi sono tracannato. Mi guardo intorno, puzzo da fare schifo. Ma come vestiti non sto messo male: jeans e maglietta e felpa, non dovrei dare nell’occhio. Che ore sono? Entro le ventidue ore devo portargli la roba a ‘sto maiale.
Ma di farla non mi viene proprio. Me ne vado a fare un giro. Discoteca laziale, carina l’insegna la vedo sempre, averci i soldi! Passo un baretto sempre mezzo vuoto, poi su, verso piazza Vittorio. Incontro qualche conoscenza, sudo freddo tra la gente che cammina e penso che tutti mi guardano. Invece è come al solito, sono invisibile. Passo in piazza che nuova è un po’ più scomoda. Qualche punto intelligente dove starsene tranquillo però si trova. La pancia mi fa un male che se potessi prenderei il coltello che c’ho sotto al letto e me l’aprirei da parte a parte, tipo sorrisone quando mi danno gli spicci per mangiare. Due sorrisi. Uno per mangiare uno per tirare fuori sto schifo.
Camminare aiuta. Mi dicono gli altri. Quelli che fanno quello che faccio io per quelli che ci giurano che sennò ci ammazzano. O ci mandano bevuti. Dicono. Camminare stimola.
Ho un euro e cinquanta in tasca. Aspetto o ci prendo un dolce che magari dà il colpo di grazia e tiro fuori sta situazione che si sta facendo insostenibile?
Tè. Ci vuole un tè, sì. Un altro tè. Mi dicono, tu quando la devi fare muoviti, ma piano che se ti si spaccano dentro vai in overdose e stiri con le zampe all’aria. Poi il debito passa alla tua famiglia. Allora mi ricordo di questa cosa e rallento. Vado verso il Bubble Tea bar vicino a quella gelateria enorme che quando c’era tanta gente faceva arrabbiare tutti perché le macchine si accatastavano. Me lo ricordo perché ero in Italia da poco e sentivo strillare uno in mezzo alla strada come un pazzo e io pensavo ecco m’ha beccato che ho rubato un portafoglio. Invece malediceva la gelateria. La strada è tranquilla. Procedo, pago il tè. Mi guardano storto forse perché sono così alto e grosso che gli faccio paura. La pancia mi lancia due coltellate, sento proprio dei dolori del cazzo come se una mano mi strizzasse le interiora. Sudo. Si è aperto qualcosa. Lo sento. Mi batte il cuore che sembra debba esplodere. Succhio la cannuccia del tè. Respiro. Niente. Come lo chiamano gli occidentali? Attacco di panico.
Ora la pancia mi esplode. Supero la Fiat e mi accascio lì al riparo dietro i cassonetti. C’ho le braccia così lunghe che cingo lo stomaco, la pancia, l’intestino, il pancreas, tutto. Premo come posso per non sentire niente. Premo e sento il calore fare la sua parte. Mi addormento. Passano le ore e io dormo e riesco a fermare il dolore mettendomi in posizione come quando stai dentro la pancia. Rannicchiato sembro alto come l’italiano che starà pensando che me la sono data a gambe, che ho preso la roba. Che non tornerò. Mi riaddormento. E mi sveglio. Niente. Di farla non se ne parla.
Rischio. Mando giù altre due gocce di lassativo. Le ultime due. Mi hanno detto fatti tutta la boccetta se proprio devi. Detto fatto.
È l’alba. La pancia dà uno scossone potente, un crampo limpido mi trafigge. Temo di spezzarmi in due. Eccolo, arriva. Sento come un terremoto. È ora. Dallo zainetto che avevo scordato di avere con me, tiro fuori una bottiglia d’acqua e i fazzoletti. Mi accuccio. Uno slancio di dolore spinge via tutto ciò che può.
Ne faccio così tanta che non vedo gli ovuli. Inizio a sudare freddo, si sono rotti, non ci sono, sono ancora dentro. Continuo a farne altra, una montagnetta. E spunta dalla poltiglia la puntina di un ovulo. Mi ci fiondo senza pulirmi. È tutto ok. Mi ci fiondo come ci si fionderebbe su chi ti salva la vita. Sono ancora accovacciato dietro i cassonetti della Fiat, non passa nessuno. Fiat. Chissà cosa significa.
Inizio a rovistare il capolavoro pieno di speranza che l’italiano non se la prenda, che l’italiano mi paghi così io me ne vado dall’Esquilino, me ne vado da Roma. Gli ovuli sono intatti. Li estraggo dalla cera, sono ancora nella pellicola. Li pulisco alla meno peggio. Uno, due, fino a dieci, poi venti, trenta, trentacinque, trentanove. Ne manca uno. Ne manca uno!
Riconto. Cinque, dieci, venti, trenta, trentacinque, quaranta! Ecco. Mi ero sbagliato. Mi ero confuso, ecco.
Mi viene fame, mi rilasso. Strofino le mani su un fazzoletto e gli ovuli al sicuro nello zaino. Sono ancora con i pantaloni calati e si avvicina un tipo. Uno di quelli che la mattina si può organizzare per andare a correre. Tuta nera, più basso di me, felpa blu, capelli neri. Corre piano. Mi ha visto. Non ha preso il cellulare però. Mi ha visto, sicuro, ora chiama le guardie. Ho le mani sui pantaloni. Continua a correre. È sempre più vicino. Mi sta guardando. Guarda la cera da cui ho estratto gli ovuli sparsa nella marea che ho scaricato sui Sanpietrini. Strabuzza gli occhi. Prova pena, lo vedo. Non sembra voler fare la spia. Mi guarda. Io mi vergogno. Penso a mia madre a casa, a mia sorella morta, penso a lui che corre e a me che devo tirarmi fuori da dentro la droga.
Il tipo mi supera, si gira. Mi giro. Ci guardiamo un istante. Ma che ne sa lui. Ma che ne so io di lui.
E mi sento così solo qui all’ Esquilino, che mi ritrovo a pregare la prossima volta almeno un ovulo si rompa.
Andrea Fassi