Da Baghdad all’Ucraina, passando per Serbia, Kossovo, Giordania, Libano. Alfio Nicotra, Copresidente di Un Ponte Per, associazione presente all’Esquilino, ci illustra le modalità operative della Ong attiva da trent’anni nella cooperazione internazionale
(Numero 44 – Bimestre nov-dic 2022 – Pagina 4)
Un Ponte Per (UPP) è un’associazione per la solidarietà internazionale e un’organizzazione non-governativa nata nel 1991, subito dopo la fine dei bombardamenti sull’Iraq (il nome originario dell’associazione era Un Ponte per Baghdad) con lo scopo di promuovere iniziative di solidarietà per la popolazione irachena colpita dalla guerra.
Successivamente l’intervento dell’organizzazione si è esteso ad altri paesi del Medio Oriente e dell’area mediterranea, come la Serbia e il Kossovo, la Giordania, il Libano.
Nel 1997 si è trasferita all’Esquilino, prima in Piazza Vittorio e poi in via Angelo Poliziano, dove opera tuttora. Abbiamo incontrato Alfio Nicotra, Copresidente della Ong, per conoscere meglio i principi guida dei loro interventi.
La scelta della vostra sede all’Esquilino è stata casuale o legata a motivi precisi?
Piazza Vittorio fin dagli anni ’90 era una sorta di paese plurietnico con tutte le contraddizioni che ciò comporta: avere il mondo in casa può essere vissuto come un motivo di forte tensione o come una grande opportunità e ricchezza. Noi abbiamo sposato questa seconda opzione. I diversi mondi possono stare insieme e proseguire lo stesso cammino. Noi stiamo anche pensando in futuro di dar vita a progetti per contribuire ad una maggiore coesione tra le diverse anime del rione, forti della nostra esperienza in tanti paesi stranieri. Comunque siamo convinti che il rione entra dentro di noi e ci porta qualcosa.
Sappiamo che, quando operate nei paesi in conflitto, privilegiate il rapporto con la società civile. Ci può spiegare meglio questo concetto?
Noi pensiamo che la democrazia non deve essere imposta dall’esterno, ma conquistata da parte dei popoli. Le attività che noi organizziamo quando operiamo nei paesi in conflitto o post-conflitto sono realizzate soprattutto dai cooperanti locali, con l’idea che la nostra presenza debba essere transitoria e che quello che realizziamo – per esempio centri sportivi per i giovani, sportelli di ascolto per le donne, la ricostruzione dei comuni locali (anche in collaborazione con l’Anci) – debba alla fine essere gestito direttamente da loro e, quando è possibile, trasferito alle strutture del paese. Per esempio le strutture sanitarie debbono essere consegnate al Servizio sanitario nazionale.
C’è qualche paese nel Medioriente che è più avanti in termini di autonomia e diritti civili?
Beh, sicuramente in Iraq, soprattutto nella regione del Kurdistan, ma anche a Bagdad e Bassora, la società civile è molto attiva ed è riuscita a rompere le differenze tra le varie etnie, sciiti e sunniti, e a lavorare insieme. Sono nate varie realtà, soprattutto fra donne, associazioni, movimenti, organizzazioni che si pongono in alternativa rispetto ai clan e alle sette. Si rompono i muri e si accettano le differenze.
Quali sono i maggiori ostacoli che trovate nell’agire in queste società?
Beh, a volte con i governi devi trovare l’approccio giusto. Per esempio, in Iraq abbiamo proposto un progetto per recuperare il patrimonio archeologico del famoso sito di Uhr, anche in collaborazione con esperti e istituzioni italiane, e in quel caso il governo locale ci ha sostenuto. Poi, certo, anche la popolazione locale la si deve rassicurare e portare ad una visione di pace. Uscire dalla logica della guerra non è facile. Anni di bombardamenti e distruzioni portano alla disperazione. Ma bisogna far capire che ‘la pace è conveniente’.
E infine anche le organizzazioni internazionali dovrebbero capire che se solo investissero il 10% dei loro fondi in progetti di pace, riuscirebbero ad invertire la cultura della guerra.
E veniamo all’Ucraina che è l’ultimo paese in cui siete intervenuti. Questo è un argomento molto divisivo con differenze di posizioni sia tra potenze mondiali, che tra partiti, associazioni, persone. Ritenete possibile avviare negoziati di pace in questa fase?
Noi verso l’Ucraina non abbiamo un approccio ‘campista’ né geopolitico. Noi stiamo dalla parte delle vittime e siamo andati in Ucraina per portare aiuti umanitari e far venire in Italia donne e bambini. Noi vogliamo, in poche parole, che si applichi quello che prevede la seconda parte dell’articolo 51 della carta dell’Onu, cioè fare una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza per indire una conferenza internazionale di pace, nominare un mediatore per il conflitto, chiedere la sospensione delle attività militari. Si può pensare ad un accordo basato su aree smilitarizzate, e sistemi di sicurezza comuni.
Insomma, lei crede possibile un mondo di pace?
Io credo alla forza e alla energia di questi ragazzi che vivono nei paesi in conflitto, ragazzi che non ne possono più della guerra e vogliono conquistare la democrazia e vivere in pace. Quando ritorno da questi paesi sono pieno di speranza. Bisogna, sempre più, essere costruttori di ponti e di speranza.
Maria Grazia Sentinelli