La Casa dell’Architettura, a piazza Manfredo Fanti, è ormai una istituzione consolidata della città e del rione, anche se sono passati poco più di vent’anni dalla sua fondazione. Ne ricostruiamo la nascita attraverso la voce di chi era presente
(Numero 53 – Bimestre mag-giu 2024 – Pagina 3)
Walter Veltroni fu eletto sindaco di Roma per la prima volta nel 2001. Il suo mandato si fondava su un programma politico e amministrativo lungimirante sul ruolo della Capitale e sulla necessità di fornirla di strutture adeguate ai bisogni e alle richieste degli abitanti. Nacquero così, fortemente volute dal primo cittadino di Roma, la Casa del Cinema, quella dell’Architettura e quella del Jazz, le prime due impiantate su edifici obsoleti e abbandonati, la terza sulla proprietà confiscata al boss Enrico Nicoletti della Banda della Magliana.
La Casa dell’Architettura fu pensata nel nostro rione Esquilino, a piazza Manfredo Fanti, nella struttura dell’ex acquario ottocentesco, a seguire, ex teatro, ex deposito e semplice edificio abbandonato.
Il 23 luglio 2003 veniva firmata
la prima convenzione
tra Comune e Ordine degli Architetti
Sono stata testimone diretta di come si sia riuscito a convincere più di quindicimila iscritti all’Ordine ad accettare l’impegno di spesa e, in momenti successivi, le attività da svolgere anche a supporto della riqualificazione del rione. Perché la promessa del sindaco è riuscita a raggiugere i suoi intenti anche per la volontà, il lavoro e l’accettazione del rischio di un Ente Territoriale, come l’Ordine, finanziato solo dai propri iscritti.
Il 23 luglio 2003 veniva firmata la prima convenzione per affidare in concessione l’edificio monumentale ‘Acquario Romano’ all’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia. Le firme in calce al documento erano quelle del Direttore del Dipartimento III del Comune di Roma, dott.ssa Luisa Zambrini, del Sovraintendente prof. Eugenio La Rocca e del nostro Presidente arch. Amedeo Schiattarella.
L’obiettivo del Comune era quello di restaurare un importante monumento, da decenni in stato di abbandono, e restituire alla città, ma soprattutto al rione Esquilino, un luogo di cultura e d’incontro.
Per noi dell’Ordine, il sogno era avere una sede per la Casa dell’Architettura, organismo culturale assente a Roma ma presente in tutte le altre capitali europee. A garanzia del programma annuale di eventi, era previsto un Comitato tecnico-scientifico, di durata triennale, composto da sette membri nominati dal sindaco, di cui tre su proposta dell’Ordine, e uno designato congiuntamente dai due soggetti tra persone scelte nell’ambito scientifico culturale.
Ma l’impegno più gravoso era il farsi carico sia del restauro dell’edificio sia delle eventuali opere ordinarie e straordinarie necessarie per perseguire le finalità dell’accordo, come l’apertura al pubblico con spazi adeguati all’accoglienza, della libreria, di un bar caffetteria, e l’organizzazione continua di attività culturali e espositive. Era inoltre prevista nell’accordo l’apertura al rione del giardino antistante l’edificio e quindi la sistemazione e la sorveglianza. E queste attività per noi erano da sommare a quelle istituzionali, come l’aggiornamento e la formazione continua dei professionisti.
Un impegno gravoso ma anche
un nuovo modo di intendere
la tutela dell’Architettura
Ho parlato di impegno gravoso e per noi, allora consiglieri, il termine si riferiva sia all’aspetto economico che a quello della responsabilità.
Per capire quale profondo cambiamento ha significato anche per la nostra istituzione l’accettare di gestire la Casa dell’Architettura a Roma è necessario sapere che gli ordini professionali sono organismi con una loro autonomia economica, basata sulle quote annuali che versano gli iscritti; le spese quindi devono essere in regola con quanto previsto dalle norme e approvate nelle assemblee di bilancio.
La legge istitutiva degli ordini del 1923 prevedeva che l’istituzione si occupasse di conservare l’elenco dei professionisti abilitati – per evitare che la cittadinanza si affidasse a persone non competenti – e della tutela della professione. Sul termine ‘tutela’ si è costruita la scala su cui ci siamo arrampicati per permettere a un ordine professionale di adeguarsi al mutare dei tempi e di diventare un organismo attivo nelle manifestazioni culturali e custode della memoria dei propri iscritti. Avevamo in più la certezza che tutelare l’architettura contemporanea significasse essenzialmente creare consapevolezza nell’opinione pubblica, trasmettere non tanto e non solo la dimensione artistica, quanto la consapevolezza delle trasformazioni profonde che il costruito opera nella quotidianità di ognuno di noi incidendo senza interruzione in ogni attimo della nostra esistenza.
In conclusione l’ormai riconosciuto ‘contenuto pubblico rilevante’ del nostro lavoro aveva bisogno di una nuova e diversa struttura organizzativa, ed eravamo noi stessi, noi architetti, che dovevamo lavorare per farlo.
Fu convocata l’Assemblea degli iscritti in cui si discusse con partecipazione e passione per arrivare alla decisione di prendere in affidamento un edificio in disuso ma ricco di storia e di valenza culturale.
La casa dell’Architettura era nata.
Maria Letizia Mancuso