La chiesa sepolta dalla storia

La millenaria frequentazione dei colli orientali di Roma – a partire dal IX secolo a.C. – rende l’Esquilino uno dei luoghi più significativi della città per la ricchezza della sua stratificazione storica. Tra le vestigia meno note, vi sono quelle di un’antica chiesa dedicata a Sant’Andrea
(Numero 54 – Bimestre lug-ago 2024 – Pagina 8)

Non sempre è facile ritrovare in una città le vestigia del passato, nascosto nello spessore della sua storia. Occorrono conoscenze, capacità, intuizione e tanta fortuna. Nel 1929, all’Esquilino, lungo via Napoleone III, nel corso della demolizione dell’ex convento di Sant’Antonio Abate per iniziativa del Pontificio istituto di archeologia cristiana, gli operai ritrovano i resti murari di un’aula basilicale absidata facente parte di una domus tardo imperiale appartenuta a Giunio Basso, della gens Annia, trasformata in chiesa da papa Simplicio (468-483 d.C.), lascito testamentario del nobile goto Valila, convertitosi al Cristianesimo.

Giuseppe Lugli ricostruisce la storia
di una delle più importanti testimonianze
dell’Esquilino aristocratico del IV secolo d.C.

Dell’esistenza di una sala di grandi dimensioni riccamente decorata in opus sectile marmoreum, riadattata in chiesa paleocristiana e dedicata all’apostolo Sant’Andrea – poi chiamata di Cata Barbara – era cosa nota agli eruditi, ma se ne era persa ogni traccia localizzativa.
Nel 1932, il professor Giuseppe Lugli (1890-1967), incaricato dell’indagine archeologica che conduce con rigore scientifico, avvalendosi di documentazione storica – resoconti letterari e disegni inediti rinascimentali – ricostruisce la storia di quello che a tutt’oggi è uno degli esempi più significativi dell’Esquilino del IV secolo d.C., ricco di prestigiose domus dell’aristocrazia senatoriale.
La domus di via Napoleone III era appartenuta all’aristocratico Giunio Basso, console ordinario nel 331 dopo Cristo, come documentava una iscrizione in mosaico sopra un fregio nella parte bassa dell’abside, poi andata perduta. Entrata successivamente nella disponibilità di papa Simplicio, l’aula basilicale era stata trasformata in chiesa e ulteriormente impreziosita con decori e simboli cristiani. Negli anni di San Gregorio Magno (715-731), accanto alla chiesa era stato realizzato un convento, ampliato poi tra il 1262 e il 1266 con un ospedale – de piscina o piscinula – per i colpiti da herpes zoster (Fuoco di Sant’Antonio) che infieriva in forma epidemica. Nel corso del Trecento, accanto alla chiesa ormai semidistrutta, se ne costruisce una nuova dedicata a Sant’Antonio Abate e il convento e l’ospedale vengono ampliati per iniziativa degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme.

Agli inizi del Cinquecento,
Giuliano da Sangallo
ne aveva esaltato la bellezza classica

Agli inizi del Cinquecento l’Esquilino, interno alle Mura Aureliane ma in una situazione di marginalità urbana, rappresentava la campagna di Roma. Lontano dal centro abitato, vedeva la presenza delle tre basiliche della cristianità – San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e Santa Croce in Gerusalemme, ancora mal collegate tra loro – e di qualche sperduto convento in cui chierici pietosi perseguivano il loro apostolato nell’isolamento più totale, come i canonici regolari di Sant’Antonio, postisi al servizio dei pellegrini e dei malati. Nell’area conventuale la chiesa di Sant’Andrea Cata Barbara, pur semidistrutta, faceva ancora bella mostra di sé: ‘se n’è fatto pollaio, fasciate le mura di belle tavole di marmi et con belle tarsie et fogliami di marmi et mosaichi et altre gentilezze’. L’architetto Giuliano da Sangallo, pioniere nello studio delle antichità classiche, recandosi sui colli esquilini ebbe modo di visionare le ‘ricchissime e meravigliose intarsiature marmoree’, con scene di mitologia greca – un leone che sbrana un cervo, un leopardo che uccide un bue e simili fiere selvagge, simboli e riti di culto orientale e soggetti dell’età imperiale. Il bacino dell’abside, invece, riservato all’iconografia cristiana, era ‘adornato dalle immagini di Cristo e di sei suoi apostoli’ in tessere di mosaico voluto da papa Simplicio.

Oggi tutto è stato inglobato
e coperto dalle edificazioni moderne

Lo scavo del 1929 aveva messo in luce gli antichi muri fino ad una certa altezza ma privi di ogni decorazione, con poche tracce dell’antico rivestimento, per l’invasività del fabbricato del convento che vi si era annidato dentro, sconvolgendo ogni cosa scendendo con le cantine sotto il piano delle fondazioni. Il lato nord non esisteva più mentre quello meridionale (alto otto metri) coincideva con la parete di fondo del convento, bucata da porte e finestre moderne. Intatti il muro perimetrale, un muro nella parete Sud-Ovest per un’altezza di sei metri, il nartece, ‘frazionato e rivestito di intonaco moderno’ ma privo di ogni decorazione, nel blocco trasversale all’angolo nord del chiostro, ed una delle due piccole absidi laterali la cui calotta formava la parete di una stanza.
Tutte queste vestigia, inglobate per lo più nelle superfetazioni moderne, seppure estremamente importanti per capire la storia archeologica del luogo con la sua stratificazione secolare, grazie al confronto dei dati archeologici con le notizie storico-antiquarie, erano ormai ‘nude e rovinate’, di nessun interesse artistico. Da qui la decisione del Pontificio istituto di archeologia cristiana – che il Concordato del 1929 esonerava dal controllo delle Sovrintendenze – di completare l’edificazione coprendo ogni cosa per realizzare la la biblioteca moderna dell’istituto, frequentata oggi da studiosi di tutto il mondo.

Carmelo G. Severino