Il pittore, che collabora con il nostro giornale, ci ha spiegato cosa è per lui un’opera d’arte. E come nascono i suoi dipinti
(Numero 30 – Bimestre mar-apr 2020 – Pagina 5)
La scopre per la prima volta in Marocco, a sud di Marrakech, in quella casa col terrazzo sull’oceano e il marabutto che si stagliava di lato: è la potenza della luce. La splendida luce del Maghreb, nell’estate di tanti fa, è stata per lui una vera folgorazione. Poi, la ritrova a Roma, città dalla quale si sente intrigato, è questa l’espressione che usa. Antonio Finelli ha due passioni: la pittura e la filosofia. Ammiratore di Giorgio de Chirico, sostiene che tutti dovrebbero leggere Schopenhauer, che ha dedicato molte delle sue riflessioni all’arte come strumento catartico, che ci consente di superare passioni e desideri. Ecco allora che il cerchio si chiude: la pittura, la filosofia. “Vivo all’Esquilino e dipingo quello che mi piace e che mi suscita emozioni, perché per me l’arte è percezione emotiva”, ci dice, davanti ad una tazza di caffè decaffeinato e un piccolo vassoio con frappe e castagnole acquistate da Panella. Ci troviamo nella cucina-atelier della sua casa a due passi da piazza Vittorio. È un attico dove si è stabilito nel 1981 e che non ha più lasciato, perché innamorato del piccolo terrazzo e della luce che, da lì, attraversa l’appartamento.
Ancora la luce. La potenza della luce. In un angolo c’è una tela su cui si delinea, ancora incompleta, la facciata di Sant’Eusebio, la chiesa dove, ha saputo recentemente, si sono sposati i suoi genitori.
Quando ha scoperto la sua inclinazione per la pittura?
Nella vita ho sempre dipinto, fin da piccolo, anche se, per varie vicissitudini, non ho potuto fare ciò che avrei voluto, cioè il liceo artistico. Mi sono diplomato in ragioneria e laureato in filosofia, ho lavorato trenta anni all’Istituto Centrale di Statistica e, per qualche anno, ho fatto anche l’assistente di filosofia all’Università, dove tenevo lezioni sul Capitale di Marx. Ma, come dicevo, ho sempre disegnato. La mia prima passione è stato l’acquerello, poi sono passato all’olio. Ho frequentato anche la Scuola di Arti comunale del San Giacomo, dove ho avuto ottimi insegnanti. I miei punti di riferimento sono gli artisti della Scuola romana del novecento, che è molto articolata, con artisti diversi, da Carlo Socrate a Trombadori e tanti altri.
Nei suoi quadri ritrae strade, portici, ma manca sempre l’elemento umano.
Non ci sono mai le persone perché ritengo che siano un elemento di distrazione rispetto a ciò che voglio illustrare, comunicare. Quando dipingo, cerco di trasmettere le emozioni che provo io in quel momento. Il concettualismo e una certa arte moderna sono frutto di un’operazione intellettuale e le persone spesso non capiscono il senso delle opere che stanno contemplando. Io credo che le opere d’arte debbano muovere le emozioni.
Come nascono le sue opere?
Io passeggio, anche in bicicletta, e a forza di passare scopro uno scorcio. Ci passo più volte in momenti diversi della giornata e lo vedo con una luce sempre diversa. Finché decido di dipingerlo. La luce è qualcosa di davvero particolare. La basilica di Santa Croce in Gerusalemme è bellissima. Ho cercato di fissare la luce sulla facciata nel primo pomeriggio, ma se ci vai un’ora prima o un’ora dopo appare completamente diversa. Spesso utilizzo la fotografia per bloccare la luce in diverse ore della giornata e riprodurla.
Che rapporto ha con il rione?
Ci vivo da quaranta anni. Quando sono arrivato era molto diverso, non c’era questa realtà dell’immigrazione. Ho visto arrivare le varie comunità. Nonostante le difficoltà, c’è qui un’integrazione che non si trova in altri quartieri di Roma. Io frequento Berlino, una città molto liberale. Però la comunità turca è, di fatto, relegata. Qui, al contrario, c’è un grande senso di tolleranza reciproca. Via Buonarroti, quando io sono arrivato, era molto tranquilla, senza negozi, non c’era ancora neanche Roscioli. Poi hanno aperto molti esercizi commerciali gestiti da stranieri, ma io non ho mai visto situazioni di tensione tra loro. Le varie comunità hanno le loro abitudini, le loro feste, ma questo non ha mai creato situazioni di attrito. Inoltre, questo rione ti offre l’opportunità di incontrare persone molto diverse, dai turisti ai poveri disperati agli artisti e questo ti offre delle opportunità.
Che sviluppo immagina per l’Esquilino?
Oggi, subiamo tanti problemi dovuti all’inadeguatezza della classe politica. Ma il rione ha delle potenzialità altissime, perché è davvero bello. I piemontesi hanno introdotto questa architettura vagamente neoclassica, con i portici che ricordano l’arte greca e rimandano alla dimensione metafisica di Giorgio de Chirico. Le altane, i colonnati, sono espressione di grande eleganza estetica.
Finita l’intervista, ci salutiamo e lui insiste perché porti con me ciò che resta delle frappe e delle castagnole. Ricuso debolmente l’offerta, ma poi accetto. Molto volentieri.
Paola Mauti