Fuggito dalla caserma, il protagonista del nostro racconto è alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo
(Numero 38 – Bimestre nov-dic 2021 – Pagina 14)
(Il racconto prosegue dai numeri 35, 36 e 37 del Cielo sopra Esquilino)
Scalzo sull’asfalto mica è come sulla terra a casa mia. Qui è tutto sporco e i vetri e l’immondizia. Poi mi sto pisciando sotto ancora. E la faccio sul primo muro che mi capita. Deve essere per quella roba che ho portato dentro. Tanto nessuno mi sta più inseguendo. Sono stato veloce. Velocissimo. Poi devo ritrovare l’italiano, quello dei soldi facili. Magari poi riesco a riprendermi quei soldi che quello con la pancia e l’idrante mi ha tolto. Ho fame. Devo mangiare. C’è questo bar, c’è scritto bar lì. Entro prendo e scappo. Entro prendo e scappo.
Allora entro. E per non avere paura devi fare paura. E tiro giù dal banco tutto quello che posso e cadono a terra cornetti e dolci e anche le gomme e le merendine. E mi chino e le raccolgo. La gente intorno ha paura, lo vedo, non si muove nessuno. Sento l’odore della paura. Pure della mia. Come in Africa la paura dura poco però, poi gli animali reagiscono. E io sono un animale come lo sono questi intorno a me, e hanno paura e io non ci penso più che ho paura e prendo i cornetti, così li chiamano. Questi li chiamano cornetti, poi prendo delle gomme da masticare, prendo quello che posso e corro via veloce. Mentre corro mangio. Metto in bocca questi cornetti caldi che sono zuccherati, troppo zuccherati. La polizia mi cerca, ora mi cercheranno anche quelli dentro lì quel bar. Ma che ci sono venuto a fare io qua?
Quindi corro. Per tornare indietro, fino a casa, dovrei correre chilometri, riprendere una barca, pagare, passare il deserto e tornare lì. Che era più bello, molto più bello ma anche più brutto.
Resto. Mi fermo, smetto di correre. Che faccio adesso? Cosa faccio adesso. Che faccio. Poi a guardare bene alcune persone, mica quelle del bar, mi sorridono. Sembrano gentili. Chiedo aiuto. Ci provo. ‘Che mi aiuti?’, chiedo a una ragazza. Ma non mi capisce. Ho mangiato ma non so dove andare. Devo farmi aiutare mi sono anche tagliato sotto al piede. ‘Che mi aiuti?’
La vedo che mi vuole aiutare la ragazza che ho fermato. È pure carina. E io mi ci sposerei. La guardo bene e mi sa che si accorge che la guardo, che ho dei pensieri. Ma è naturale, è normale. Io non le voglio fare del male. Lei ora indietreggia di uno, due, tre passi lo fa con delicatezza, mi sembra. Pensa io non mi accorga che vuole scappare, pensa forse io possa farle del male. E mi avvicino e faccio due passi e le sono vicino di nuovo. Lei indietreggia. Ora il viso è proprio teso. Uno dalla parte della strada strilla così: ‘Oh ragazzo che fai?’. Un po’ lo capisco. Penso mi stia chiedendo cosa voglio o qualcosa di simile, forse se voglio aiuto. Io lo guardo e dico nella mia lingua: ‘Niente, chiedo aiuto a questa ragazza’. Mi giro e lei non c’è più. L’hai fatta scappare, penso. Poi mi dico che l’ho fatta scappare io.
Camminando, vuoi che sia un caso o forse è l’unica strada che conosco, sto di nuovo sotto al sottovia Turbigo. Questa volta tiro dritto. Niente polizia, idranti, niente di niente. Neanche i miei soldi sono più qui. Dopo il sottovia… vado di là o di qua… mi chiedo. Di là è verso la stazione dei treni, mi pare che da quelle parti c’è l’italiano. O forse no, è di qua. Ma di qua non c’è granché. Però di qua vedo un gruppetto di persone, mi sembrano un po’ sperdute là davanti a un grosso cancello. Ci vado.
Sono in quattro mi guardano e io li guardo. Due bianchi e due neri. Quello nero, che mi sembra pure più grosso di me, muove le mani non parla e mi viene incontro. Poi parla: ‘Qui c’è un treno invisibile che ti rimette sul binario, lasci il tuo sentiero ritrovi la fiamma e riparti’. Lo guardo. Parla la mia lingua. ‘Qui c’è il wi-fi, le docce la gente. Ogni tanto fai pure roba fratello’, aggiunge. Lo guardo in silenzio. ‘Gli italiani sono buffi fratello. Una parte si lagna che non ci accolgono e che ci trattano male, una piccola parte, perché fratello è una piccola parte, ci tratta di merda. Quindi sii grato bello che sei arrivato qua’. Lo guardo, avrà dieci anni più di me che nel mio paese vuol dire che già puoi essere un leader. C’ha gli occhi cattivi però. No, no aspetta, non cattivi, sprezzanti. Ha sofferto e, mi sa – cioè lo sento – che non ha più molta paura di soffrire.
‘E tu che ci fai qui fuori? Perché allora non sei dentro’, chiedo. Mi guarda e risponde: ‘Io ormai faccio come mi pare. Io sto qui, prendo un po’ di quello che mi serve e me ne vado in giro. Io sono arrivato come te, bello, con la roba dentro la pancia. Portavo droga nel culo io per vivere. Te ne rendi conto dopo, della dignità. Quella lì a un certo punto impari che non torna più se la perdi. E questi qua, questi del treno Binario 95, questi ci provano a restituirtela. E sono bravi, bello. Ma io sono così, non mi mischio. Prendo e vado prendo e vado e annuisco e me ne fotto’.
‘Non capisco’, dico io. ‘Fratello, entra. Capirai’, mi dice, e se ne va. Si gira e si allontana. Se ne va e dà uno schiaffetto sul viso sulla faccia dell’altro tipo. Io resto fermo, guardo il Binario ma non vedo nessun Binario. Che devo fare? Resta fermo, qualcuno mi dirà. Qualcuno mi spingerà o forse torna la polizia. Ma no che torna. C’è un campanello alla destra del cancello. Suono. Magari c’è davvero un treno verso la dignità.
Andrea Fassi
*L’atteso finale nel prossimo numero