I giusti condimenti ed una mantecatura perfetta, per un primo che vale una cena.
(Numero 8 – Bimestre lug-ago 2016 – Pagina 15)
Decido di prendermi un periodo di vacanza al contrario: passerò un po’ di mesi a Roma. Un’ottima occasione per continuare a scoprire realtà nostrane del nostro rione. Dove andare per colmare quel desiderio di romanità che continua a non placarsi? Dalla Vecchia Roma, chiaramente, colonna portante dei valori della cucina romanesca all’Esquilino. E’ sufficiente osservare l’arte di mantecare l’amatriciana flambè in una forma di parmigiano per avere la certezza che sarà piu difficile ripartire quando arriverà il momento. Non annuncio ai ragazzi del locale il desiderio di voler scrivere un articolo. So già che le parole pioveranno sul monitor come parmigiano grattuggiato sopra i generosi piatti di pasta tipicamente romani.
L’autentica atmosfera romana. Mi siedo. Per la precisione ci sediamo, questa volta siamo in due. Il locale è già pieno di turisti e romani che si guardano intorno, l’atmosfera è vera. Oggi vecchia trattoria romana, un tempo cantina utilizzata dagli avventori per giocare a carte sorseggiando vino, la Vecchia Roma attraverso nonne, mamme e nipoti ha mantenuto la tipicità della cucina di una volta. Il tempo passa e tutto trasforma, si sa. Ma come una leggenda, una storia o un vecchio segreto, anche i sapori si possono tramandare di generazione in generazione, lo so per certo. E alla Vecchia Roma questa regola vale ancora: Il cibo è buono e la preparazione lo rende divino.
E’ ora di iniziare. Io ordino un’amatriciana, lei una parmigiana. Nell’attesa mangio una bruschetta semplice, molto buona, ma le papille gustative sono in trepidante attesa del primo. Dalla vista al palato: un trionfo di immagini e sapori. Con la coda dell’occhio osservo uno dei ragazzi mantecare la mia amatriciana in una grossa forma di formaggio. Vengo rapito dalla fiamma che contorna la forma e penso: chissà se un tempo questa lavorazione era una consuetudine. Poco importa, per me è una scoperta. Mi perdo tra le fiamme e tra i movimenti del giovane cameriere. Il piatto di amatriciana arriva fumante al tavolo ed anche l’aspetto della parmigiana sembra invitante. Ho occhi solo per l’opera d’arte a pochi centimetri da me. Affondo la forchetta nella pasta perfettamente mantecata: la densità del sugo è equilibrata, cremosa e saporita. Il guanciale si scioglie come burro dando ancor più sapore al piatto. Sono distratto, il sapore è cosi deciso da colmare quel vuoto di nostalgia provata nei mesi in cui sono stato lontano. Penso alle spezie, alla moltitudine di piatti che ho assaporato nel mondo e che continuerò ad assaporare, ma ora voglio perdermi in un sapore che troppo spesso ho dato per scontato. Riesco a godermi il piatto silenziando persino il chiacchiericcio delle decine di commensali presenti nel ristorante. Questo piatto vale da sé più di ogni altra cena intera. Torno in me. Alzo lo sguardo e vedo l’altro piatto vuoto: “Hey dovevo assaggiarla!”, esclamo rivendicando l’assaggio promesso ormai perduto.
I sapori di una volta. Ordino una bistecca e una porzione di puntarelle. La carne è molto buona ma dopo due primi simili tutto il resto è noia. Le puntarelle invece no, mi gettano di nuovo in un profondo abisso di romanità. Il loro sapore deciso fa riemergere quel nostalgico romano verace che è in me. Sono buonissime: aglio come se piovesse, alici e un sughetto che pulisco con il pane in un men che non si dica. Ho più olio sulla maglietta che nel piatto. Ma questo è un buon segno. Il dolce lo saltiamo. Scherziamo un pò con i ragazzi che ci offrono un’immancabile “ammazzacaffè”. Paghiamo e andiamo via. Ho voglia di ritrovare un po’ di sapori romani, ma dopo questa tappa sarà dura perchè un solo piatto di pasta ha colmato prepotentemente ogni desiderio di tradizione. Per ora.
Andrea Fassi