Continua il nostro viaggio gastronomico attraverso i cinque sensi. Quarto episodio: l’udito
(Numero 20 – Bimestre lug-ago 2018 – Pagina 15)
Silenzio in cucina. Da bambino, le ombre nella cucina portavano corna da animale. Fameliche, prima che mia madre iniziasse a cucinare, si allungavano sul muro mentre in punta di piedi cercavo indizi per la cena. Stringevo i pugni ai fianchi, attento a muovermi sotto gli occhi muti di utensili e piatti in bilico. Premeva forte su di me il vuoto silenzioso della cucina, sospesa prima di essere resuscitata da mani sapienti. Lame immobili dai manici opachi luccicavano tuffate in morbido legno ma nessun rumore disturbava la mia incursione. Bottiglie, pentole, non c’era vita.
Avanzavo cauto e sporgevo il naso, speranzoso di trovare qualche ingrediente mentre la pressione sul petto aumentava. Temevoche il forno, le pentole o i mestoli prendessero vita e in una danza macabra insieme alle corna d’animale mi portassero via, giù nell’oblio risucchiato dalla gola di un forno scuro e freddo.
Avevo paura, ma il fascino era irresistibile. Quello era il momento in cui, tra mura in cui si genera nutrimento, il nulla aveva luogo. Sospeso, potevo toccare con mano la mia idea di solitudine, già chiara a nove anni. Più tendevo le orecchie più il silenzio dominava la mia percezione uditiva.
Rumore creativo. Oggi sono diventato un ottimo ascoltatore. Mi sono allenato. Il grande laboratorio della gelateria genera rumori che solo io riesco a sentire, e la cucina di mia madre, quando vado a trovarla, sembra ancor più piccola, soffia impercettibili sibili che riconosco con maestria.
Un progresso in gran parte dovuto a quando, da bambino, andavo a pranzo a casa di amici con famiglie numerose. I piatti sbattevano sui lavabo, le nonne gridavano “E’ pronto!” mentre il coltello affilato sezionava graffiando fette sbilenche di pane sbuffanti di farina. La carne sbattuta a mano sembrava un forte schiaffo sul sedere e lo sferragliare delle posate aveva la parvenza di un braccio meccanico pronto a stringerti il polso. Mentre un bicchiere che cadeva suonava nel suo frantumarsi come un’arpa scordata, le padelle friggevano scoppiettando a ritmo e saltando cipolle come fossero vermicelli elettrici. Il rumore della cipolla che frigge credo sia unico e ho imparato che ogni elemento reagisce al calore in maniera diversa, emettendo rumori diversi: la cipolla si carbonizza gridando.
Suoni famelici. La forchetta, mentre affilava le sue forme su denti ambrati di commensali ineducati, mi ha insegnato a distinguere mangiatori navigati da novellini. Mordere una mela: ne sentivo la succosità e il grado di maturazione da come scrocchiava tra lingua e denti di vicini rumorosi. Riuscii, solo grazie all’esperienza, ad anticipare la goccia di liquido misto a bava che spesso scivolava sibilando da bocche affamate al mio fianco, spostando la gamba senza fretta.
Quando si mangia si parla! Io odiavo il rumore. Avrei voluto tapparmi le orecchie o cavarmi i timpani, eppure trovai una valida opportunità. Col tempo imparai a scindere, nel caos, ogni singolo rumore percepibile: arrivai a definire 148 rumori in una sola tavolata. Avrò avuto 12 anni e la voglia di frantumare quel silenzio che spingeva da dentro il petto. Ma non ne ero capace.
Eppure, oggi la cucina mi ha insegnato che la convivialità, il rumore e la condivisione non valgono centesimi, ma sono oro. Oro che riempie il vuoto presente in ognuno di noi, oro che cola e modella amicizie e famiglie, rompe legami e sancisce patti commerciali. La tavola è il fulcro della nostra società e il suono che genera ne è il motore.
Perché in fondo, soli in una cucina o in una sala da pranzo, si rischia di essere incornati e trascinati via dalle ombre.
Andrea Fassi