Dal laboratorio di cornici e vetreria di via Foscolo transitano momenti di vita in cerca di eternità. Una chiacchierata con lo storico proprietario Alberto Anzellotti
(Numero 50 – Bimestre nov-dic 2023 – Pagina 4)
Attendo il mio turno nel laboratorio di Alberto. Gli occhi vagano sul caos di lunghe cornici addossate alle pareti, dei campionari esposti in sequenza di colore e di spessore, di cartoncini, legni, tele, quadri, vetri, fogli, pennelli, giornali, macchinari. Mette di buon umore questa piccola bottega: sa di vita e di lavoro, quello fatto sulle cose, quello fatto con le mani. La cliente prima di me è sporta sul tavolo di lavoro. Sta scegliendo con cura la tonalità di un passe-partout perché vuole incorniciare un quadro cui tiene molto. Era in casa di sua madre e ora sua madre non c’è più.
Un lavoro particolare:
un po’ confessore, un po’ psicologo
Che operazione stiamo compiendo quando decidiamo di incorniciare qualcosa? Cosa stiamo cercando di fermare, di proteggere, di riportare in vita, di esibire? Siamo così distratti ormai, assuefatti dalla nebulosa confusa e agitata di immagini in cui siamo immersi. Eppure, ancora oggi, scegliamo di sottrarne una a quel flusso, di dedicarle tempo e denaro, di apporle una corona su misura e appenderla alla parete di casa.
Rimasti soli, rivolgo queste domande ad Alberto. Dal 1972, quando suo padre aprì il negozio al civico 5 di via Foscolo, di fronte a dove è oggi, ha avuto tra le mani migliaia di immagini, ha conosciuto migliaia di storie. È un lavoro particolare il suo: un po’ confessore, un po’ psicologo. Chi gli consegna una foto, un quadro, un disegno o oggetti di ogni tipo, in fondo gli sta facendo una confidenza, lo lascia sbirciare nel proprio privato, gli sta affidando qualcosa che ha un significato, qualcosa che deve restare. Alberto negli anni ha imparato a muoversi all’interno di quello spazio di fiducia che si crea con i suoi clienti, cercando di comprenderne i desideri.
Ricordi protetti e ricordi dimenticati
L’urgenza di fondo è quella di proteggere i ricordi. Di persone, di luoghi, di avvenimenti importanti, di momenti speciali. I clienti un po’ più avanti con l’età sentono con più forza il bisogno di condividere. «Mi piace parlare con loro. Hanno tanta voglia di raccontare», mi dice Alberto. «A volte sono io ad essere curioso di sapere, guardando una vecchia foto, o una cartolina, che metto a doppio vetro per leggere anche il retro, o una bella cornice artigianale, di quelle con gli incastri a rondine senza chiodi o con uno stile originale, che magari conservano ancora la targhetta di chi l’ha rea-lizzata e l’anno. Allora chiedo, e loro si ricordano tutto: i nomi, la data precisa, i luoghi, le situazioni. Hanno il terrore di non avere più tempo, di perdere quei ricordi. Questa cosa la sento tanto».
A volte quella voglia diventa quasi un’ansia: clienti che ogni giorno passano per avere informazioni sull’avanzamento del lavoro, che sembra non possano proprio più attendere. Oppure ci sono le storie inverse. Quelle degli oggetti che gli sono stati affidati e poi sono stati abbandonati in bottega. Nel tempo ad Alberto ne sono capitati parecchi. «Molti anni fa, eravamo ancora nel vecchio negozio, un signore qui della zona mi lasciò alcune belle illustrazioni: erano le prime pagine di una rivista francese di fine Ottocento. Quando lo vedevo passare gli ricordavo di venire a ritirarle ma lui non lo faceva mai. Finché un giorno non l’ho visto più e sono rimaste lì». E ancora: «Un amico di mio padre, che morì l’anno dopo di lui, mi portò a incorniciare tutta la squadra del Catanzaro calcio dell’81: piccole maioliche con le foto dei giocatori. Sono ancora qui. Nessuno le ha più reclamate». Si ricorda anche di alcune vecchie locandine di film di Walt Disney, della lanterna di una botticella romana a cui doveva sostituire il vetro, di una foto di un ex presidente americano, che ha ritrovato di recente in un angolo del laboratorio, e di foto di famiglia, con i genitori da giovani e i sorrisi rivolti alla macchina fotografica, che sono state dimenticate, ormai decenni fa. Non si saprà mai cosa ha sganciato improvvisamente quegli oggetti dalla catena della memoria. «Non so più di chi siano queste cose. Io di solito attacco sull’oggetto un fogliettino con il nome. Ma se passa troppo tempo e il foglietto si stacca e si perde, poi è impossibile per me risalire al proprietario. Quindi se la persona non si ricorda, l’oggetto è orfano».
In un angolo del tavolo da lavoro di Alberto – quella sorta di altare povero da cui scendono stalattiti di colla, strati su strati ormai duri come roccia, come un immenso candelabro su cui si sono sciolte centinaia di candele – ci sono alcune prime pagine di quotidiani che parlano dello scudetto del Napoli di quest’anno, pronte per essere messe sotto vetro. I titoloni, le mani che innalzano la coppa, le foto dei giocatori e dei tifosi esultanti. Sono il regalo di un padre al proprio figlio. Lo trovo un regalo bellissimo.
In fin dei conti, ciò che desideriamo conservare per sempre sono quei brevi attimi perfetti che a volte nella vita ci capitano. Come dice qualcuno: quando siamo felici, facciamoci caso.
Micol Pancaldi