Un recente pronunciamento del Tar riporta l’attenzione sull’edificio di proprietà del Comune e da tempo dimenticato. Ma intanto lo stato di abbandono rischia di creare problemi di sicurezza
(Numero 11 – Bimestre gen-feb 2017 – Pagina 1,4)
Contro la trasformazione in sala bingo si mobilitarono artisti, intellettuali e nomi noti dello spettacolo. Ma contro l’inerzia del Comune poco è stato possibile. Oggi l’ex cinema Apollo, edificio dei primi del Novecento fra via Cairoli e via Giolitti, è in stato di abbandono. Un ingresso, chiuso solo da una cancellata, è pieno di rifiuti e nei mesi scorsi sono caduti pezzi di intonaco dai cornicioni, tanto che l’amministrazione ha transennato il marciapiede con dei paletti e una rete di plastica limitando il passaggio dei pedoni. La storia recente di questo bell’esempio di architettura liberty è travagliata e simile ad altre proprietà pubbliche.
Dai film a luci rosse all’acquisto del Comune. Alla fine degli anni Novanta il cinema si chiama Pussycat e proietta pellicole vietate ai minori. La proprietà, la Cairoli 2000, avrebbe voluto convertirlo probabilmente in una sala giochi, ma “l’anima bella” del rione alza la testa. Nasce un’associazione, Apollo 11, che nell’agosto del 2001 scrive una lettera al sindaco di allora, Walter Veltroni, sottoscritta da tante firme della cultura italiana. “Trasformiamolo – si legge nell’appello – in una sorta di primo cinema laboratorio multietnico italiano, una sala con eventi e film in lingua originale (sottotitolati in italiano) indirizzati non soltanto ai cinefili ma anche e soprattutto alle varie etnie presenti, cioè a quanti, pur risiedendo nella nostra città, non hanno altra possibilità di accedere alle proprie espressioni culturali”. L’idea piace. L’anno dopo, il Consiglio comunale con una delibera approva l’acquisto dello stabile per una spesa di circa tre milioni di euro.
L’affidamento ai privati. Nel 2004 viene pubblicato un bando per la concessione dell’immobile per 18 anni, aggiudicata ad una associazione temporanea di imprese, l’ATI Calendula. Secondo il bando, i privati avrebbero dovuto utilizzare l’ex cinema con le finalità culturali indicate dalla stessa amministrazione comunale e quindi realizzare una sala per la proiezione di pellicole provenienti da tutto il mondo, con annesse attività aggiuntive come bar e negozi. I lavori di ristrutturazione e adeguamento sarebbero stati a carico delle imprese, oltre a un canone annuo da versare al Comune di 138.410,00 euro. Sembra fatta ma non è così. Nel giugno 2005, i Beni Culturali concedono il parere positivo sulle opere di ristrutturazione e nel 2007 vengono rivisti i termini di concessione: la durata viene portata a trenta anni e il canone ridotto a 50mila euro l’anno a partire dal nono. Da qui in poi le parti cercano di stipulare una convenzione di concessione ma ogni sforzo è vano. Nel 2010 l’ATI sottoscrive un “accordo quadro preliminare” con la CNA di Roma con l’obiettivo di realizzare una sub concessione che segua gli stessi dettami della amministrazione capitolina nell’utilizzo. Visto l’immobilismo del Comune, anche la CNA inizia a scalciare e a minacciare la risoluzione dell’accordo.
La chimera del contratto. Passa il tempo e si susseguono le diffide che l’ATI invia all’indirizzo del Campidoglio. Arriva finalmente però nel 2012 un cenno da parte del Comune, divenuto Roma Capitale: il 6 aprile l’amministrazione trasmette una bozza dell’atto di concessione e sollecita all’ATI la produzione dei documenti necessari. I privati rispondono, ma nel frattempo chiedono di rivedere i termini per mantenere l’equilibrio economico finanziario del rapporto di concessione. Alla richiesta segue il silenzio. Finché il ricorso al TAR: le aziende chiedono i danni derivanti dalla mancata stipula e la revisione del contratto. In particolare, l’ATI chiede il rimborso delle spese, per un totale di 318.945,14 euro, versati per la progettazione delle opere di ristrutturazione, per impedire il crollo delle strutture fatiscenti ed evitare l’ingresso di persone senza fissa dimora. Il Comune risponde che l’ATI avrebbe potuto ricorrere al Tribunale amministrativo entro i 90 giorni dalla aggiudicazione mentre per farlo ha atteso otto anni.
La sentenza. A luglio del 2016 l’epilogo: il TAR ha respinto il ricorso e la richiesta di risarcimento, condannando i privati alle spese processuali. Nelle motivazioni, pubblicate lo scorso settembre, i giudici osservano come la mancata stipula del contratto non sarebbe imputabile all’amministrazione bensì alla stessa ricorrente che, molti anni dopo l’aggiudicazione, non aveva ancora prodotto la documentazione attestante il possesso dei requisiti generali. Il Campidoglio, quindi, non è stato inerte nel sottoscrivere la convenzione, visto che ancora nel 2012 si dichiarava disposto a procedere. Semmai lo è stato perché non ha ripreso possesso dell’ex cinema Apollo “per farne – si legge nella sentenza – un uso corrispondente alle attuali esigenze di interesse pubblico e della collettività”.
Come dare loro torto? L’amministrazione capitolina ha dimenticato di possedere un gioiello. Certo, il cambio di giunta nel 2008 ha sicuramente influito sulle scelte politiche ma nessuna giustificazione di casacca può spiegare uno spreco simile. Da quando è divenuto proprietario, infatti, il Comune ha perso denaro contante dal mancato utilizzo della struttura, oltre a venire meno alla promessa fatta ai cittadini di offrire un centro culturale a un rione sofferente.
Il nuovo appello. A dicembre i consiglieri municipali, Stefania Di Serio e Davide Curcio, hanno firmato una mozione per portare all’attenzione dell’amministrazione la recente sentenza e chiedere alla presidente del I Municipio di attivarsi con urgenza presso la giunta Raggi. Lo scopo è quello di mettere in sicurezza l’edificio per garantire il passaggio pedonale su via Giolitti, ripulire e sprangare con tavole il cancello oggi usato come pattumiera, e predisporre al più presto un progetto per il recupero e la valorizzazione.
Intanto a gennaio è apparso un nuovo cartello: l’edificio è sotto sequestro. Secondo fonti del Comune in realtà lo era già da tempo. Le vicissitudini dell’Apollo sembrano non finire mai.
M. Elisabetta Gramolini