Proviene da una villa esquilina la statua raffigurante il tragico destino del sacerdote troiano, che ha influenzato profondamente generazioni di scultori e critici d’arte
(Numero 41 – Bimestre mag-giu 2022 – Pagina 9)
La domenica mattina del 14 gennaio 1506, di buon’ora, un gruppo di uomini è convenuto nella vigna di Felice de Fredis, ufficiale della Camera Apostolica, per assistere al ritrovamento di quella che si rivelerà una delle più importanti opere d’arte antica: il gruppo del Laocoonte, capolavoro della statuaria ellenistica, di cui parla Plinio nella sua Historia Naturalis.
Il luogo della scoperta è particolare: alle pendici dell’Esquilino, ‘presso alle Capocce’, dalle parti delle Sette Sale, dove presumibilmente sorgeva la dimora imperiale di Titus Flavius Caesar Vespasianus Augustus.
Una figura leggendaria dal tragico destino
Felice de Fredis, scavando ‘sotto terra circa a braccia sei’, ha casualmente rinvenuto una ‘scultura antica bellissima di marmo’ e consapevole dell’importanza del ritrovamento ha richiesto la presenza di autorevoli testimoni. Tra di loro, anche Michelangelo che rimarrà colpito dalla possente muscolatura del sacerdote troiano. Papa Giulio II della Rovere ha incaricato da parte sua l’architetto Giuliano da Sangallo, che non ha esitato nell’identificare l’imponente statua, appena dissepolta, non senza un brivido di emozione, come il gruppo marmoreo raffigurante Laocoonte, personaggio della mitologia greca e gran sacerdote di Apollo, o forse di Poseidone, e i suoi due figli, stritolati dai serpenti marini inviati da Pallade Athena.
Narrato nel ciclo epico della guerra di Troia e ripreso nell’Eneide di Virgilio, l’episodio rappresenta la vendetta della dea greca della Guerra che, parteggiando per gli Achei, infiammata d’ira, punisce Laocoonte e i suoi figli Antifate e Timbreo. Il sacerdote, infatti, sospettando l’inganno greco del cavallo di Ulisse, si era opposto all’idea di introdurlo nelle mura della città, scagliandogli contro un giavellotto e gridando: ‘Timeo Danaos et dona ferentes’ – Temo i greci, anche quando portano doni.
Liberato dalle incrostazioni, l’imponente blocco di marmo – alto 242 cm – appare in buono stato ma mutilo, privo delle teste dei serpenti e delle braccia destre di Laocoonte e di un figlio. Risulta essere la copia marmorea di un originale bronzeo del 150 a.C., scultura ellenistica di scuola rodia, opera di Hagesandros, Polydoros e Athenodoros, realizzata tra il 40 ed il 20 a.C., che Plinio ebbe modo di ammirare nella villa esquilina dell’imperatore Tito.
La scultura diventa uno dei pezzi più pregiati dei nascenti Musei Vaticani
Sistemato in Vaticano nel Giardino del Belvedere, il Laocoonte, simbolo della stessa Roma grazie all’interpretazione mediata dall’Eneide di Virgilio, diviene oggetto di continue visite da parte di intellettuali e viaggiatori, suscitando ammirazione e influenzando notevolmente gli artisti per il dinamismo e la plasticità della scultura, come testimoniato anche dalle lettere degli ambasciatori, i disegni e le incisioni degli artisti.
Il Laocoonte, il corpo teso allo stremo per svincolarsi dalla stretta dei serpenti che paralizzano, ed il suo ‘grido di marmo’, muto e sconvolgente, destano l’entusiasmo di tutti. Giulio dei Medici – futuro papa Clemente VII – e Francesco I di Francia ne fanno fare una copia, in gesso per gli Uffizi, il primo, in bronzo per Fontainebleau, l’altro, mentre Napoleone Bonaparte, secoli dopo, facendolo esporre al Louvre, ne farà una delle fonti d’ispirazione del neoclassicismo francese, così come nel corso degli anni lo era stato per Michelangelo, Bernini, Winckelmann e Goethe, che del Laocoonte avevano fatto il fulcro di ogni riflessione artistica.
Un nuovo ritrovamento e una nuova interpretazione
Ludwig Pollak, raffinato archeologo e mercante d’arte, nel 1906 riconosce nella bottega di uno scalpellino di via Labicana il braccio destro di Laocoonte e ne fa dono a Pio XI. La fortuita scoperta del braccio mancante rivoluziona l’interpretazione tradizionale della scultura che soltanto nel 1959, rimosse le parti posticce, riacquisterà il suo aspetto originario.
Il braccio, infatti, determina il modo in cui il sacerdote affronta il serpente, se levato nella lotta, in un gesto eroico, o ripiegato nella sconfitta, dietro la spalla. L’arto ritrovato rovescia completamente il senso dell’opera, demolendo l’immagine idealizzata del personaggio: non l’eroe che si oppone al proprio destino, con il braccio sollevato e proteso in posizione di forte dinamicità, come lo stesso Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) – uno dei massimi teorici del neoclassicismo – pur consapevole della forzatura, aveva voluto privilegiare, ma un uomo sofferente, rassegnata vittima dell’ira vendicativa della dea.
Carmelo G. Severino