Il direttore d’orchestra ci parla di musica, di Resistenza e del suo amore per il rione
(Numero 12 – Bimestre mar-apr 2017 – Pagina 9)
Entriamo in uno studio dominato da un grande pianoforte a coda. Qui il direttore d’orchestra Massimo Pradella ci propone un patto: “Vi vendo l’intervista se in cambio fate una battaglia per risolvere i problemi di queste strade”. Sta scherzando, ma non troppo. Infatti prosegue: “Non è possibile che dopo tanti anni piazza Vittorio sia ancora divisa in due: la parte sud e la parte nord. Non è solo questione di via Principe Amedeo o via Ricasoli, è tutta la zona che va dalla piazza alla stazione ad avere una situazione non accettabile”. Accogliamo la proposta e iniziamo con le nostre domande.
Maestro, possiamo dire che la sua vicenda artistica e personale ha inizio con delle ProVocazioni Religiose?
Questa è una storia che inizia nel 1938, quando vennero emanate le leggi razziali. Mia madre e suo fratello, musicisti, erano di origini ebraiche, il loro cognome era Senigaglia. Il salotto di casa era sempre pieno di giovani allievi, ma dopo il 1938 nessuno venne più. Entrambi insegnavano musica presso l’istituto magistrale ma vennero licenziati.
Nel 1939, quando avevo 14 anni, il mio parroco organizzò un concerto per una giornata ProVocazioni Religiose (a favore delle Vocazioni Religiose, ndr). Io suonavo sia il violino che il pianoforte. Su “La Voce Adriatica” comparve un articolo violento, in cui venivo definito “mezzo sangue”, quindi bastardo. Continuava con accenti provocatori rivolti non solo a me ma agli ebrei in generale. Questo incredibile articolo creò un senso di pericolo per la mia famiglia, e mio padre si fece trasferire a Roma. Qui nessuno conosceva il cognome di mia madre. Amo questa città anche perché mi ha salvato.
Com’è arrivato a partecipare alla Guerra di Liberazione?
Ho fatto domanda il 5 giugno del ’44 come volontario nell’Esercito di Liberazione. Purtroppo o per fortuna non arrivai mai al fronte. Stavamo andando verso il nord. Ma durante il viaggio mi ammalai e venniricoverato presso l’ospedale del Celio. Lì mi diagnosticarono una pleuropolmonite, che mi costrinse a letto per un mese e mezzo circa, fino al 16 Aprile 1945.
Ad ogni modo è alla Garbatella che inizia la mia storia di resistente: dopo l’armistizio dell’8 settembre, io e alcuni amici del quartiere eravamo pronti, per quantolo potessero essere dei ragazzi, a combattere. Distribuivo la stampa clandestina al Conservatorio e all’Università: mettevo i giornali, che erano costituiti da soli due fogli, nei grossi stivaloni che avevo preso da mio padre. Indossavo i calzoni di un mio zio morto nella Grande Guerra. In questo modo sembravo un militare in borghese.
A volte, però, ero poco cauto: un giorno ero in fila per comprare delle verdure e parlai male dei tedeschi. Una ragazza con la divisa fascista se ne accorse e mi guardò in modo minaccioso. Il figlio di un mio vicino di casa – il colonnello Pirro, che lavorava per il tribunale fascista, ma che era un resistente -venne da mee mi disse di aspettare davanti al portone sotto casa. Il padremi portò dall’altra parte di Roma per fare il finto attendente del tenente Cantelli. Anche quella volta è stato grazie alla generosità dei vicini di casa che mi sono salvato.
Per questo anche durante quegli anni non ha mai perso di vista la dimensione umana?
Sì non posso dimenticare la generosità di quanti mi hanno aiutato. Molti sono i “giusti” che hanno aiutato gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.
La musica è la passione della sua vita. Quando ha iniziato a suonare?
Sin da piccolo ho studiato musica. Mi sono diplomato in pianoforte all’età di 15 anni, a 17 ho preso il diploma in violino. A 24 anni mi sono diplomato in composizione. Nel 1945 ho vinto il concorso nazionale per entrare tra i primi violini dell’Accademia di Santa Cecilia, fino al 1950, anno in cui ho iniziato il corso di perfezionamento in direzione d’orchestra. Nel 1953 ho debuttato nei concerti dell’Accademia e da quel momento ho iniziato una carriera importante. Dalla metà degli anni ’50 fino al 1990 sono stato direttore stabile delle orchestre RAI, prima a Torino, poi a Napoli ed infine a Roma. La mia carriera mi ha permesso di dirigere importanti orchestre in giro per il mondo. In Europa ho diretto soprattutto in Germania. Negli ultimi anni, oggi ne ho 92, mi sono occupato soprattutto di composizione e degli alunni. Insegnare musica è una tradizione di famiglia.
Ha vissuto in molte città diverse e in varie parti del mondo. Come mai ha scelto l’Esquilino?
Mia moglie ed io vivevamo in un’altra zona della città ma lei cercava qualche cosa di più centrale. Aveva trovato varie soluzioni, ma alla fine abbiamo scelto questo appartamento. Appena entrato, ho avuto la sensazione che questa casa fosse giusta per me, era come se le pareti mi dicessero di restare qui.
Purtroppo però da circa una quindicina di anni le cose sono cambiate: prima vi erano tanti artigiani e piccoli negozi. Ora questa strada è piena di ambulanti abusivi. Le mamme dei miei alunni non vengono qui volentieri. La situazione, soprattutto in questa parte, quella che va da piazza Vittorio a Termini, è alquanto invivibile. Mia moglie sta pensando di lasciare questa casa, ma io non vorrei, perché a me piace tantissimo.
Tornando alla sua infanzia, nei ricordi che sta raccogliendo c’è anche quello di un vecchio garibaldino.
Sì. Ad Ancona quando avevo circa 10 anni, sfilava durante la parata del 24 maggio: lo ricordo ancora con il suo berretto e la camicia rossa. L’anno successivo non c’era più, ma al suo posto c’era il figlio. Io non vorrei essere l’ultimo garibaldino (nella Resistenza ci chiamavano così). Vorrei che i valori di questo periodo e di questa lotta vengano ripresi ed aggiornati dai giovani, che spesso vedono quegli anni come un periodo lontanissimo, come io vedevo lontana l’epopea garibaldina. Bisognerebbe impegnarsi affinché i giovani vengano resi maggiormente consapevoli dei motivi e dei valori della Resistenza. Sarebbe bello se su questo giornale ci fosse uno spazio dedicato a queste tematiche, come punto di riferimento tra giovani, insegnanti e istituzioni.
Antonia Niro