Da elemento di sostentamento a momento di socialità e di appagamento estetico. Il cibo in crisi d’identità
(Numero 24 – Bimestre mar-apr 2019 – Pagina 15)
Papille è fuori dall’Italia. Per la precisione negli Stati Uniti. Si sottoporrà a un intervento che gli permetterà, forse, di avere indietro la lingua. Per questa ragione, eccomi di nuovo a scrivere.
I diversi approcci al cibo. Tutti, con un poco di attenzione, siamo in grado di discernere tre stati emotivi che ci guidano verso il cibo. Per semplificare il tema, li dividerò in tre correnti: l’estetismo culinario, il bisogno di socialità e l’approccio primitivo. Nei miei lunghi viaggi ho sempre scelto gli ultimi due piuttosto che il primo. La mia proverbiale curiosità, mi ha sovente introdotto a tavoli variopinti, condivisi con commensali per cui ero io ad essere straniero. Nasceva spontaneo un piacere culinario espresso nella ricerca della conoscenza sociale attraverso il cibo, curiosità reiteratasi di esperienza in esperienza: la consapevolezza del nutrirsi non solo per sopravvivere ma anche per socializzare.
Solo nel tempo ho imparato il piacere concettuale del cibo. Ho avvicinato da pochi anni la soddisfazione di ascoltare la raffinatezza di un ragionamento dietro un piatto, ricercandone i tratti strutturali e le vibrazioni che ne scaturivano dall’assaggio. Ho sempre creduto questa regola fosse un binario per fuggire più veloci dalla solitudine, poiché ponendo il nutrimento del corpo al pari del piacere dell’anima, si dava a essa la possibilità di essere colmata di concetti e astrazioni, come uno stomaco affamato.
Perché mangiamo. La differenza tra i diversi approcci risiede nella predisposizione emotiva con cui si affronta un pasto, o forse la vita. Ma prima di tutto, prima ancora di approfondire questi diversi aspetti, è necessario ricordare brevemente perché mangiamo. Mangiamo per sopravvivere, nulla di più. Questa motivazione, acerba quanto di primaria importanza, è il concetto alla base dell’approccio primitivo. Si mangia per necessità, si odora per capire l’eventuale pericolo, si osserva per capire lo stadio di deperibilità di un prodotto.
Ma si mangia anche per conoscere il luogo in cui si arriva, per socializzare.
Convivialità cinese. A Shanghai, in Cina, alcune anziane aprono il retro delle case su strada e in alcune sere di primavera cucinano per gli avventori. L’esperienza condisce il cibo di conoscenze e tradizioni, come una nonna che cucina per gli amici dopo la scuola. Cenando con un’anziana signora cinese e due turisti svedesi, non ho ricercato alcun sapore particolare, non mi sono soffermato sulle caratteristiche del prodotto, ho piuttosto studiato la leggerezza con cui il cibo scivolava in secondo piano, mentre l’uomo diventava protagonista assoluto. Ma anche a tale approccio, semplice e scarno, sono consapevole manchi qualcosa. La convivialità può non essere sufficiente.
L’estetica alimentare. Qui subentra il raffinato concetto dell’estetismo del cibo. L’altro approccio che ancora oggi sto analizzando. Il piacere culinario che trascende le motivazioni rudimentali e permette di riempire bocca e stomaco di contenuti organolettici e dialettici per pochi, di riconoscere delle ciliegie in un buon vino o quanta rovere abbia inciso sul risultato finale. O addirittura cogliere le acidità o le punte di amaro eccessive in un piatto, e la capacità di apprezzare la sua sostanza, scomponendolo e glorificandone le caratteristiche tecniche. L’esteta alimentare ricerca la struttura e il piacere indotto dal cibo con la stessa avidità di chi è alle ultime pagine di un libro avvincente. Questo è possibile solo grazie all’evoluzione della nostra cultura, essa ha reso il cibo un piacere e come tale viene celebrato, disquisito, studiato e goduto.
Il pasto ‘sociale’. Ma rimanendo in ambito culturale, la riconoscibilità di sapori cui siamo abituati è anche utile alla formazione di un’appartenenza sociale. Attraverso le tradizioni culinarie, si completa il processo di socializzazione che inizia con la crescita e l’allontanamento dalla figura materna. Un pasto in gruppo, condiviso, aumenta il grado di socialità dell’individuo ponendolo su una linea orizzontale con i suoi commensali, che in fin dei conti riconduce l’essere umano a una primitiva necessità che appartiene a tutti, a prescindere dal ruolo sociale ricoperto. Ricondurre l’uomo a quest’atto primitivo, è la via per riportare le relazioni su un piano ugualitario. Restituendo l’equilibrio in un’epoca in cui la fame, per gli occidentali, sembra anacronistica se non volgare. A riprova di questo le piccole porzioni presentate su grandi piatti che non sfamano e allo stesso tempo rendono il cibo ‘oggetto di valore’.
E se nella storia l’attenzione al gusto ha sempre contraddistinto le esperienze culinarie, in particolare quelle europee, oggi si degusta e si mangia con sempre meno attenzione al valore intrinseco o primitivo del gesto. L’esteta del cibo sarà sempre in contrapposizione al rudimentale affamato. Incurante di questa crisi d’identità, il cibo diviene oggi arte moderna, seduce gli animi e riempie quella solitudine incolmabile che appartiene ad ognuno di noi e che in ogni epoca cerca il suo antidoto in espressioni differenti.
Concludo con un pensiero di Plutarco, il quale sostiene che: “Non ci invitiamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare assieme”.
Da lì, dove il cibo è veicolo di socialità e non feticcio di disquisizione, mi avventuro verso un estetismo che mi attrae ma di cui, ancora, non mi fido.
Andrea Fassi