Intorno a noi tante storie che non conosciamo o che conosciamo solo per sentito dire. Sono storie che spesso iniziano in paesi lontani, per poi diventare esquiline
(Numero 54 – Bimestre lug-ago 2024 – Pagina 2)
Siamo abituati a pensare all’altro come altro da noi. Ma l’altro non è né peggio né meglio, è altro. Peccato che ci sfuggano le sfumature: l’altro è altro anche per gli altri.
L’abuso del pronome ‘altro’, che abbiamo usato 8 volte in 5 righe, meriterebbe una serie sfregi di matita blu su qualunque compito dalle elementari fino al dottorato. Incuranti insistiamo. Lo useremo ancora e non solo come pronome, ma anche come aggettivo e, come farebbe Cetto La Qualunque, anche come avverbio: altramente. E così via, e così sia, senza pietà per i lettori e tantomeno per la lingua italiana.
Veniamo al punto: ognuno di noi ha la tendenza a vedere l’altro come straniero, diverso, misterioso, ma allo stesso tempo come un unicum indifferenziato. Nessuno di noi lo fa per cattiveria (qualcuno sì, ma è un’altra storia), per lo più lo si fa per ignoranza o superficialità.
Vediamo quindi indiani, pakistani, malesi, indonesiani, birmani, ma anche cinesi, giapponesi o senegalesi, angolani, keniani, e ancora algerini, egiziani, marocchini e… ci sembrano tutti uguali! Ovvero sono altro da noi, sono un mistero. E noi semplifichiamo: pensiamo parlino la stessa lingua, mangino le stesse cose. È perché siamo bianco-centrici? Forse. Ma in realtà è perché di 7 miliardi di persone, quanti siamo sulla terra, non sappiamo nulla o quasi. E ognuno guarda l’altro come altro e lo fa altramente.
Succede anche a noi, se ci spostiamo dalla nostra zona di appartenenza, di essere visti altramente.
Un giorno qualcuno potrebbe dirci
che Zaragoza e Parma
più o meno sono la stessa cosa…
Può capitare di andare in Uzbekistan o banalmente in Ohio e dire di essere italiani e che qualcuno risponda: bella l’Italia, ho un parente che vive a Zaragoza. Orrore! Non per Zaragoza ma perché come si fa a confondere la Spagna con l’Italia? Ci sembra invece più normale, anzi insignificante, dire ad un turkmeno che il nostro sogno è andare a Samarcanda (che è in Uzbekistan), e magari poi fare spallucce come dire: ‘Vabbè siamo lì’. Immaginate un Uzbeko che ci risponde così: Zaragoza, Parma più o meno siamo lì. O ridiamo o ci offendiamo, ma di sicuro ci scandalizziamo.
Chi va al mercato di Piazza Vittorio
può scoperchiare una pentola
sul mondo degli altri
Fatta questa premessa, è venuto il momento di scoprire gli altri all’Esquilino ma non rispetto a noi, rispetto a loro stessi.
Chi va al Nuovo Mercato Esquilino può scoperchiare una pentola sul mondo, quello degli altri! Altri che si parlano tra loro, per lo più in italiano, che è l’unica lingua che hanno in comune. Altri che si frequentano senza bisogno della nostra intermediazione, anzi a nostra totale, inconsapevole, insaputa, oscurità.
E allora scopriamo che un bengalese vende un tipo un frutto o una verdura o un pesce solo ai cinesi, e un altro solo ad africani. E possiamo conoscere storie di come bambini asiatici, africani e europei che vanno alla scuola Di Donato, si incontrino e si frequentino e vivano la loro italianità e il loro stare insieme. A questo proposito è estremamente interessante il lavoro che la maestra Patrizia Pellegrini (sì, proprio la collaboratrice del nostro giornale) ha fatto raccogliendo le risposte dei bambini della IV-C delle elementari nell’anno scolastico 2010-2011, alle domande: ‘Mi sento italiano? Perché? Quando?’. Così scopriamo, per esempio, le storie di bambini cinesi che, pur parlando in dialetto romanesco, fanno gruppo a sé nella scuola di viale Manzoni 34.
E andando oltre, possiamo scoprire la storia dei talenti musicali che costituivano l’Orchestra di Piazza Vittorio e di quelli che hanno intrapreso una carriera sportiva dopo il liceo e i primi svezzamenti nell’Esquilino Basket. O ancora di chi ha sfruttato il proprio bilinguismo, e magari una laurea in legge, per collaborare con la Polizia e il tribunale… Altre storie che forse sono altro da noi ma sono comunque storie esquiline.
‘Per tutti, noi e loro, noi e gli altri, la strada è segnata e non c’è ritorno. Figli di un lungo viaggio, nasceranno altri da altri e il viaggio continuerà nei secoli futuri. Come è già stato nel passato’.
Carlo Di Carlo e Guido Conter