Prima tappa del viaggio gastronomico nelle case dei nostri lettori. Da Maria e Giuliano tra i ricordi dell’Esquilino di una volta
(Numero 10 – Bimestre nov-dic 2016 – Pagina 15)
Arrivo da Giuliano e Maria alle 19,45. Mi hanno chiesto di cenare presto perché non amano mangiare dopo le 21. Mi presento con una bottiglia di vino rosso, si sposa con il menù proposto. “Niente gelato?”, chiede Maria. Mi prende un po’ alla sprovvista, ho fatto una gaffe. Dopo qualche secondo di silenzio la mia ospite scoppia in una risata: “Bello mio, sono 42 anni che vivo all’Esquilino, lo sai quanti gelati mi sono mangiata?”. Sorrido e le porgo la bottiglia, mi sta simpatica Maria.
Un aperitivo a sorpresa. La tavola è semplice: pane bianco, acqua in una vecchia caraffa, il mio vino e una scodella con un miscuglio scuro. Giuliano nota che osservo la scodella. “Quello sai cos’è? È la “pappa alle olive!”Un’ invenzione di Maria!”. La “pappa alle olive”, mi spiega Maria, è una rivisitazione della pappa al pomodoro toscana: pane raffermo con un trito di olive nere, olio extra vergine, una spruzzata di limone, sale e pomodorini secchi tritati con una puntina di zucchero. Lo spalmo sul pane senza neanche sedermi. E’ di una bontà unica.
Du’ spaghi e l’Esquilino di una volta. Giuliano mi fa accomodare. Maria è tornata in cucina a preparare un sugo di pomodori pachino. Lui è in pensione da 13 anni, mi racconta di quando prendeva il caffè alla torrefazione Berardo: “Scendevo la mattina là davanti alla gelateria tua. C’ avevo l’abitudini mie, me l’hanno tolte tutte, m’è rimasto qua sotto solo Vincenzo. Tu dove sei cresciuto?”, alla fine mi chiede. “Quando ero molto piccolo qui all’Esquilino – rispondo -, ma ricordo poco. Mi sono trasferito presto in Prati. Sono tornato da qualche mese”. “E sei n’traditore allora, mo’ torni all’ovile!?”, ridacchia Giuliano. “Se hai passato tanti anni in un quartiere – continua – sai cosa significa amarlo e rispettarlo vivendolo. Le abitudini, le consuetudini di zona, quelle cose là c’hanno tolto. Se ne sono andati tutti”. Cambia tono di voce celando un velo di tristezza: “Sono anni amari e bui per il rione”. Maria scola la pasta rigorosamente di Gragnano. Il sugo scoppietta e lei con un veloce movimento sposta gli spaghetti nella padella, mantecandoli. “Io non ho studiato – confessa Giuliano -, ho iniziato a lavorare giovanissimo alle Ferrovie. Mi bastava. Sapevo sarebbe stato più che sufficiente per farmi le spalle grosse, avrei costruito una famiglia e una casa solide. Mio padre, i nostri padri – guarda Maria un istante – c’ hanno insegnato a lottare. Erano altri tempi”. Tira su quelle spalle con fare disilluso. “Qualcosa s’è inceppato oggi, non c’è più spazio”. Maria ci serve interrompendo Giuliano: “Dai Giulià, non cominciare eh, godiamoci questo bel sughetto e questo bel giovane”. Gli spaghetti al pomodoro di Maria sono di una semplicità disarmante ed è proprio questa la cucina che amo. Cotti in un po’ di aglio e olio, un cucchiaino di zucchero, sale e due foglie di basilico, sono ottimi. “Il segreto è la cottura del sugo e il modo di mantecarli!”, aggiunge Maria versando un goccio di olio crudo sulla pasta. “Guarda che non sono pessimista eh!”, sorride Giuliano continuando a parlarmi con una forchetta in mano. “Ma non ce posso sta’ che l’Esquilino sia diventato lo scarto del centro storico”. Rilassa il volto solo masticando, qualche istante dopo, una bella forchettata di spaghetti. Guardo Maria con occhio languido, poi fisso il piatto vuoto con il pane in mano. Mi fissa anche lei per qualche istante: “E falla la scarpetta va’!”. Maria mi dà campo libero e le pulisco il piatto con maestria.
Odori e sapori di casa. Il secondo è pronto. Sento un delicato profumo di burro e spezie, ho più fame di prima: saltimbocca alla romana. “Io da giovane ero come te, magrolino con l’aria sveglia. Ero il terrore del mercato di piazza Vittorio, il più importante mercato di Roma. Correvo in bicicletta tra i banchi e rubavo la verdura o quello che mi capitava sotto tiro. C’era un’aria di paese qui, come un po’ in tutta Roma”, sospira nostalgico. “Giulià e su, non annoiarlo eh”. Lo interrompe Maria. “Ora si mangia. Dimmi se ti piacciono, li facevo sempre ai miei figli quando vivevano qui”. Addento l’involtino. E’ un’esplosione di sapori genuini. Poco pepe, sale, arista di maiale e salvia. “La ricetta è semplicissima” mi dice Maria. “Un po’ di burro, qualche fogliolina di salvia, arista di maiale e, a Giuliano piace, prosciutto crudo. Mentre cuoci sfuma con un vino buono”. Mentre parla penso che una sola Maria valga 100 Chef stellati.
L’essenza conta. Arriviamo al dolce: lo zabaione. Io amo lo zabaione. Chiacchieriamo un po’ e li saluto presto. Mi abbracciano. Giuliano salutandomi mi ricorda: “Oh, se te sposi o qualsiasi cosa resta all’Esquilino eh!” Gli sorrido e vado via. Passeggio verso casa. Avrei voluto dire a Giuliano e Maria che l’Esquilino non sarà mai più ciò che è stato per loro. Sento un ragazzo cinese gridare ad un amico: “Ao, namo o no?”. Sorrido. In cuor mio penso che sì, l’Esquilino non sarà mai più come una volta.
Andrea Fassi