Lo scrittore prende una pausa dal Salone del libro e pubblica un pamphlet sul rione
(Numero 15 – Bimestre nov-dic 2017 – Pagina 1,5)
Il più semplice dei titoli dà nome all’ultima opera dell’autore Nicola Lagioia sul rione: “Esquilino”. Il primo racconto colpisce come un pugno in faccia. Glialtri mini saggi riempiono la ferita di pugnalate. Non ci sono sconti sullo stato di degrado della Capitale per lo scrittore pugliese, oggi confermato direttore del prossimo Salone internazionale di Torino, fino a ieri residente e osservatore.
Lagioia, perché è difficile entrare in relazione con gli “altri” da noi, le persone più povere che vivono al margine della società?
I poveri fanno paura a chi non lo è o teme di poterlo diventare.
I veri emarginati (quelli che non votano né hanno una capacità di acquisto) non sono minimamente contemplati dal discorso pubblico. Quando lo sono, il nostro atteggiamento verso loro è sempre di tipo patronale, tanto più quando assume toni caritatevoli. La letteratura, da sempre, possiede gli strumenti per svolgere un fondamentale ruolo vicario – testimoniare per chi non ha voce. Oppure almeno testimoniare nel modo più sincero possibile le difficoltà, la scabrosità e al tempo stesso la necessità umana di entrare davvero in contatto con l’altro, cioè quello che ho provato a fare io con il mio reportage sul rione.
Il filo che lega i racconti del libro sembra essere quello degli esclusi. Persone descritte come soggetti, consapevoli o inconsapevoli, di un registro “altro” che ha un proprio vissuto, un proprio lessico del tutto autonomo da quello della società integrata, dal linguaggio vigente e ancor più da quello dei “professionisti del discorso pubblico”.
Il discorso pubblico non parla la lingua degli emarginati (i quali non comprano i giornali, né sono determinanti per l’esito di un’elezione) e al tempo stesso parla una lingua morta, non-viva, per dirla con Romero. Gli emarginati, come ogni gruppo umano, elaborano continuamente una lingua viva. Una lingua a volte anche violenta, ma ancora umana. E’ però appunto una lingua “altra”. Lo sapevano bene Ciprì e Maresco, per esempio. Ma è sufficiente passare una settimana in un qualunque quartiere povero di una qualunque città italiana, per rendersene conto.
Secondo lei nel rione è fallito il progetto di integrazione multietnica, e il degrado urbano e sociale produce ormai solo rassegnazione. L’Esquilino quindi soffre di una situazione più critica rispetto al resto della città? Che responsabilità hanno le attuali Amministrazioni?
L’Esquilino è uno dei sogni infranti di Roma. Non ne parlo come di un rione in cui è fallita l’integrazione. Ne parlo come di un luogo in cui è fallita l’idea di integrazione come sviluppo sostenibile. Le diverse etnie convivono tra loro piuttosto pacificamente. Ma questo non ha creato un modello (culturale, economico, ecc.) all’avanguardia, come si credeva dovesse succedere alla fine degli anni Novanta. L’Esquilino affonda come tutta Roma, questo è. E’ un rione magnifico, a due passi dal Colosseo, in cui potrebbero succedere tantissime cose, e invece rispetto alle potenzialità succede pochissimo. Pensate solo a quanti artisti, scrittori, registi, musicisti vivono all’Esquilno, e a quant’è povera l’offerta e la produzione culturale del rione. L’Esquilino aveva i numeri per diventare il nostro Greenwich Village. Non è accaduto, e la situazione mi addolora molto. Ma ripeto, è tutta la città che vive in stato d’abbandono. Potevamo essere all’altezza di Barcellona, di Berlino. Potevamo ridurre la distanza (enorme) che ci separa da Parigi. Ci siamo ridotti a una piccola Mumbai.
Chiudiamo con Torino. Il Salone del libro è stato un vero successo. Se lo aspettava o ne è rimasto sorpreso, data la novità ed il sostegno delle grandi case editrici su Milano? Qual è stato il segreto di tale riuscita?
La verità: ho innestato su Torino tutto ciò che avevo imparato dalla scena indipendente romana. Il tutto ha funzionato. Un’assoluta libertà d’azione da fanzine o da casa editrice indipendente, con qualche risorsa a disposizione (non chissà quanti soldi, ma sufficienti a lavorare), il tutto innestato sull’incredibile etica del lavoro per cui Torino primeggia. Non mi sembrava vero: fissavo una riunione alle 08.30, e alle 08.29 cominciavamo a lavorare. Il rimpianto è non vedere cose del genere sotto una certa linea di confine. Più andavano bene le cose a Torino più io ero felice e insieme triste, perché non capivo e continuo a non capire perché qualcosa di così grosso e bello non riesca a succedere anche al Sud.
Maria Grazia Sentinelli