Tra la strada e le stelle

Edwige Pezzulli, ex studentessa del Liceo Pilo Albertelli all’Esquilino, oggi affermata astrofisica, è tra i nuovi volti della divulgazione scientifica Rai. Ci racconta del suo impegno sociale, della sua passione per la scienza e le stelle, nata tra i banchi di scuola, e di quando voleva farsi lanciare in un buco nero…
(Numero 56 – Bimestre nov-dic 2024 – Pagina 9)

Lo sguardo rivolto al cielo ma i piedi ben piantati per terra, Edwige Pezzulli è un’astrofisica che attraverso l’impegno nella divulgazione e sui temi sociali punta a portare la scienza in una dimensione pienamente comunitaria e sociale. Nella comunità scientifica è nota per i suoi studi sui buchi neri primordiali, mentre il grande pubblico l’ha scoperta grazie a Superquark+ e Noos, le trasmissioni Rai di Piero e Alberto Angela. È autrice dei volumi collettanei ‘Apri gli occhi al cielo – Guida all’universo’ (Mondadori, 2019), – un colorato viaggio per appassionati di astri di tutte le età – e ‘Oltre Marie – Prospettive di genere nella scienza’ (Le plurali, 2023).

Edwige Pezzulli, come nasce il tuo amore per l’astrofisica?
Come molte delle cose più belle della vita, è nato quasi per caso. Quando andavo al liceo, il Pilo Albertelli, non sapevo cosa avrei fatto da grande. Ero innamorata della filosofia tanto da pensare che sarei diventata una filosofa. Un giorno partecipai a un dialogo tra un fisico e un matematico su una scoperta che non ricordo.Durante l’incontro, però, i due non parlarono della scoperta ma finirono per discutere di cosa fosse la fisica e cosa la matematica. Quell’incontro con Gianni Battimelli – era lui il fisico in sala – fu per me un’epifania: capii che la fisica era molto di più di quello che avevo studiato a scuola e che si trattava di uno strumento potentissimo per capire la realtà.

Cos’è che ti affascina di più di quanto si muove sopra di noi, nel cielo?
Con la mia compagna di banco delle scuole medie ci divertivamo a disegnarmi cadere dentro un buco nero. Avevamo scoperto che da un buco nero niente può uscire, nessun segnale e, dunque, non potevamo sapere come fosse dentro. Io ero convinta a immolarmi: da grande sarei stata lanciata dentro un buco nero. Certo, avrei fatto una brutta fine, ma speravo di poter capire qualcosa prima che la sua gravità estrema mi distruggesse. Alla fine il lancio è rimasto una fantasia, ma durante la mia tesi di laurea tornai in quei paraggi e iniziai a studiare i buchi neri da un punto di vista teorico, in particolare quelli supermassicci, che si trovano nei cuori delle primissime galassie dell’Universo.

Gli scienziati vengono spesso visti come persone lontane dalla concretezza della vita reale. Tu invece in questi anni hai scelto di portare il tuo lavoro anche nelle carceri, prima a Rebibbia e poi a Frosinone. Quale può essere la funzione della scienza in un carcere?
La scienza è forse lo strumento più potente che abbiamo costruito come esseri umani per investigare la realtà e credo sia fondamentale recuperare la sua dimensione terrena: si tratta di un processo collettivo volto a costruire domande e cercare risposte. Il pensiero scientifico, la capacità di interfacciarsi con la realtà in modo scettico, critico e razionale, è una ricchezza per chiunque, non soltanto per chi la scienza la fa. Anzi, potrebbe rivelarsi una risorsa soprattutto in contesti dimaggior fragilità, perché è nelle situazioni di precarietà che abbiamo bisogno di strumenti ancora più robusti per capire, ma anche per scegliere e per autodeterminarci.

Sei tra le fondatrici di WeSTEAM. Di cosa si occupa la vostra associazione?
Con altre colleghe che lavorano nel mondo scientifico abbiamo costruito una rete per proporre nuovi modi di fare e raccontare la scienza attraverso le lenti di genere. La scienza è ancora un campo in cui gli uomini trovano più spazio e che, nell’immaginario collettivo, associamo ad attività maschili. Come mai? Quando un problema è complesso, spesso complessa è anche la soluzione. Il primo passo è creare una maggiore sensibilità, anche perché parlare di genere nella scienza non è solo questione di giustizia sociale: le domande della scienza non si trovano nella natura a priori. Siamo noi a scegliere cosa sia interessante e cosa no, e portare punti di vista differenti può trasformare anche i saperi che produciamo.

Il nostro giornale è molto letto nelle scuole dell’Esquilino. Vuoi lasciare un messaggio per le nostre lettrici e i nostri lettori più giovani?
Lascio che a parlare sia una persona molto più in gamba di me, Stephen Hawking: ‘Ricordatevi di guardare le stelle, non i piedi. Cercate di dare un senso a quello che vedete e chiedetevi cosa permette all’universo di esistere. Siate curiosi’. Per me questa frase fu molto importante. Spero possa esserlo anche per voi.

Davide Curcio