All’Esquilino c’è un barbiere che usa metodi di rasatura tradizionali, ma la sua tecnica rischia di non avere eredi
(Numero 17 – Bimestre gen-feb 2018 – Pagina 5)
Via Carlo Alberto è la strada che collega piazza Vittorio al piazzale dominato dall’imponente Basilica di Santa Maria Maggiore. Anche qui, come in tutto il rione, le attività commerciali sono in affanno: molti negozi hanno chiuso, qualcuno, nel tempo, è stato riavviato, quasi sempre da stranieri. C’è qualche frutteria, negozietti che vendono piccoli souvenir per turisti e, soprattutto, si susseguono jeanserie e negozi di abbigliamento. Si tratta di locali tutti uguali, spesso con luci e musiche sparate, pieni di merce e, quasi sempre, senza nemmeno un cliente.
Tarda mattinata: un capannello di turisti, appena usciti da un grosso pullman parcheggiato in doppia fila ad ingolfare la circolazione delle auto, staziona sul marciapiede, in attesa della guida. Sono persone di mezza età, scambiano qualche battuta, si guardano intorno distrattamente, qualcuno si ferma davanti alla porta-vetrina di un piccolo negozio e una signora, con il cellulare, scatta alcune foto. Ad attirare la sua attenzione è una vecchia barberia: la smerigliatura, sul vetro della porta, ricorda ai passanti che l’attività è stata avviata nel lontano 1906.
Una barberia di 112 anni. Il negozio è piccolo, lungo e stretto; il pavimento è rivestito con semplici mattonelle chiare, assolutamente démodé. L’arredo è quello scelto, oltre settanta anni fa, dal precedente gestore, il signor Berardi, cioè colui che ha insegnato i segreti del mestiere a Danilo De Bellis. Entrato come dipendente quando aveva meno di venti anni, il barbiere ha rilevato, nel 2000, l’attività. I lavandini sono celesti, le belle poltrone, modello “Regina Amata”, come è inciso sui poggiapiedi in ferro, risalgono agli anni ’40 e hanno la struttura in legno, sui lati decorata con motivi floreali. Sulle pareti c’è una boiserie che risale a cinquanta anni fa; da una piccola vetrina piena di prodotti e oggetti del mestiere, spicca una vecchia confezione di brillantina Linetti. Danilo non vuole che il suo negozio somigli ad un “barber shop”, per questo non rinnova l’arredo e, soprattutto, pratica la stessa vecchia tecnica che ha imparato, quando, giovanissimo, ha fatto proprio qui l’apprendistato.
La differenza si tocca con mano. Mentre parliamo, continua a lavorare; il primo avventore è un signore molto anziano, poi arriva un giovane amico. Danilo gira intorno alla poltrona dove si è accomodato il cliente, poggia sui capelli il pettine, poi le forbici e si capisce dai suoi gesti, dal suo sguardo quando, riflesso allo specchio, verifica il procedere del lavoro sulla testa o sul viso del cliente, che, certamente a fare la differenza è la mano. “Non si può apprendere il mestiere con un percorso che dura un anno”, dice Danilo, “Io, dopo la scuola media, ho fatto un corso serale, ma è qui che ho imparato e ci sono voluti anni di pratica”. Già, pettine e forbice: eppure non è per niente scontato che siano proprio questi gli attrezzi del mestiere. “Oggi sono pochi quelli che sanno “sfumare” alla vecchia maniera, cioè non con il rasoio, ma con pettine e forbice”, spiega Danilo, “Per un taglio fatto in questo modo, all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, puoi chiedere decine di dollari”.
L’attività, tutto sommato, va abbastanza bene, anche perché all’Esquilino è difficile trovare altri barbieri in grado di praticare le tecniche tradizionali di rasatura con queste caratteristiche, “Ormai tutti aprono parrucchieri unisex, che è più remunerativo, perché gli uomini non sono disposti a spendere quanto le donne per l’acconciatura, ma in realtà sono tecniche molto diverse, che non si possono apprendere frequentando un corso di pochi mesi”. In effetti, basta fare una passeggiata in città per capire che sono davvero pochi, in tutta Roma, i barbieri tradizionali.
Il pensiero va quindi al futuro: gli chiediamo se c’è un apprendista che sta frequentando il suo negozio per imparare il mestiere. Danilo scuote la testa, “L’ho proposto a mio nipote, ma lui ha preferito la scuola alberghiera. Forse, da grande farà il cuoco”.
Paola Mauti