Se l’amministrazione pubblica non ce la fa a gestire i beni comuni ci pensano i cittadini
(Numero 12 – Bimestre mar-apr 2017 – Pagina 2)
Condomìnio significa “padroni insieme”. È uno stare insieme forzoso e necessario quando il diritto di proprietà di due o più unità immobiliari nello stesso edificio si raccorda con i diritti e gli obblighi sulle parti comuni. Nella riforma del condomìnio del 2012, è prevalsa la tesi individualistica legata alle prerogative dei singoli condòmini che nega al condomìnio personalità giuridica finalizzata a svolgere compiti e attività di interesse collettivo, contro la tesi collettivistica che considera la proprietà comune come proprietà collettiva dei condòmini con il condomìnio ente autonomo.
Una difficile convivenza. Si spiegano così le difficoltà, concettuali e pratiche, ad organizzare funzionalmente le parti comuni, quali i giochi per i bambini, i servizi collettivi, a destinare locali per festicciole o per attività culturali come letture e conferenze. I condomìni non sono quei centri di aggregazione che molti rimpiangono e che in altri tempi erano i cortili o addirittura la strada.
Il pubblico fa fatica. Ma neppure lo spazio e i servizi pubblici stanno bene. Non funziona la nettezza urbana, nella raccolta e nello spazzamento, non funziona la cura del verde, le strade sono ricche dei tronconi di alberi tagliati lasciati come artistici cippi, piccole aiuole o microscopici spazi verdi sono gabinetti per cani. Le persone che vivono o lavorano sulla strada non la riconoscono come propria.
Nell’estate del ’99 in via Rattazzi, un comitato appese uno striscione: “Siamo sempre più incazzati: il Campidoglio ci ha abbandonati”. Lo striscione fu rimosso e il comitato multato per 1 milione di lire. Diciotto anni dopo qualcosa è cambiato: i cittadini hanno iniziato a fare a meno delle istituzioni. Se le biblioteche non attraggono i lettori, sono i libri che vanno dai lettori con forme di scambio; se gli orari di scuola non si conciliano con quelli delle mamme che lavorano, i doposcuola volontari trattengono i bambini e li aiutano a fare i compiti; se la città è sporca, i volontari della scopa organizzano giornate di pulizia e stacchinaggio dei manifesti. Si è arrivati a disegnare la segnaletica per una pista ciclabile contromano sotto la galleria di Santa Bibiana tra l’Esquilino e San Lorenzo. Vi sono poi occupazioni di suolo pubblico con esiti talvolta molto gradevoli, come a largo Leopardi.
Ritrovare lo spirito di comunità. Il Comune però non è stato fermo: ha cercato di inglobare le attività spontanee. Nel luglio 2014 il Campidoglio ha adottato le Linee Guida per chi intende progettare e realizzare interventi di riqualificazione e manutenzione di spazi urbani. Qualche tempo prima il Municipio aveva già lanciato i progetti “Roma sei mia” e “Nuova Linfa”. Si tratta di progetti che di fatto chiedono ai privati di farsi finanziatori di opere e servizi che il pubblico non riesce ad assicurare. Si tratta però di iniziative alle quali manca l’anima, che è la sussidarietà, e la consapevolezza che i beni comuni sono della collettività e non degli enti locali.
Per questo stanno nascendo nuove esperienze, quali i “condomìni di strada”, che costituiscono un nuovo modello per gestire il fronte strada e curare il patrimonio pubblico di zona. La gestione degli spazi, infatti, non esaurisce l’idea del condomìnio di strada, che punta soprattutto a ricostituire uno spirito di comunità. Questa nuova tipologia di esperienze può costituire il tessuto connettivo tra persone che vivono nella stessa strada e che si dotano di servizi comuni, con la concertazione e la partecipazione come metodo operativo. Questo agire civile, originato dalle attuali manchevolezze e dal sorgere spontaneo di iniziative per farvi fronte, trova fondamento nell’articolo 18 della Costituzione: “Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Carlo Di Carlo